Cucina

Le “Totere” di Casoli: storia e ricetta

Cominciate a sentire l’odore del Natale? Forse altro non è che il profumo delle Totere, che da Casoli, in quel della Maiella, giunge fino a voi, ovunque voi siate nel mondo. Odore di olio che frigge, odore di crema, odore di limone che a tinte acidule riempie l’aria di aliti natalizi, riportandovi indietro a qualche centinaio di anni fa…

La leggenda vuole che sia nata sul finire dell’Ottocento, dalla fantasia creativa e geniale di un giovane casolano di nome ignoto, che dalla magica e romantica Napoli «della Belle Époque» avrebbe riportato in patria una rivisitazione a tutti gli effetti tradizionale ma originalissima. Parliamo della “Totera”, forma italianizzata del casolano “totere” (da leggere all’abruzzese, «totәrә», con tutte le “e” mute), un dolce sfizioso, con due anime diverse che s’incastrano, o meglio potremmo dire che si «abbracciano» tra loro, per creare un gusto a tutto tondo, una vera spirale di piacere.

Il primo «animo» è quello croccante della copertura esterna: un impasto classico e per certi versi “povero”, prodotto con ingredienti tipici della tradizione popolare abruzzese (uova-olio-farina con l’aggiunta di un pizzico di zucchero). Risulta al palato leggermente dolce, e «scrocchia» sotto i denti se mangiata appena calda.

Il secondo «animo» è quello più morbido e pastoso della crema, servita («avvoltolata») fresca, con quel suo aroma di limone appena accennato, che quasi stuzzica i sensi, insinuando nel sapore caldo dell’inverno un accenno fruttato e sottilmente primaverile.

Oggi la totere è stata proclamata prodotto topico della tradizione casolana. Ma effettivamente dove e quando nasce? Non ci sono in realtà documenti ufficiali che ne attestino l’origine, o perlomeno, come suggeriscono anche gli abitanti del luogo, non tutto sembra sia ancora «saltato fuori».

Si sa però che al tempo, in quel lontano periodo fine-ottocentesco, Casoli (“Casule”) fosse il centro di una ricca e vivace borghesia. Le prime eleganti caffetterie cominciavano già a punteggiare la cittadina, ed erano luoghi di rilassatezza e svago, dove l’attenzione alla produzione dolciaria e alla creazione “originale” diventava rapidamente un vero e proprio marchio di stile. Prendeva ormai piede l’idea moderna del «bar» nella sua veste più chic.

In questo clima ricerca “gastronomica” va probabilmente inserita anche la nascita della totera. L’ispirazione, provenuta evidentemente da Napoli, è motivata tra le altre cose dal fatto che in quel tempo la città partenopea era ancora (e lo sarebbe probabilmente stato fino allo scoppio del primo conflitto mondiale) una capitale europea della modernità, della raffinatezza e dell’arte, ed eccelleva soprattutto nella produzione dolciaria. Il caffè napoletano Gambrinus era del resto uno dei più famosi sul territorio nazionale. 

In questo ambiente si sarebbe recato, secondo la tradizione, il figlio di un mastro «caffettiere» di Casoli, e qui avrebbe probabilmente subito il fascino delle creazioni artigianali napoletane. Ancora oggi esiste un dolce, comunemente noto come «cannoncino napoletano», che per forma e riempimento ricorda un po’ la totere casolana.

Tornata in Abruzzo tuttavia la totere ha acquisito sin da subito l’eco della lingua locale. Lu totere è infatti nel dialetto casolano (e di altre località del territorio) il «tutolo»: la parte interna della pannocchia di mais. Tutto è tornato alla terra, e le totere oggi, ormai nel terzo millennio, vengono ancora realizzate seguendo la stessa ricetta che di madre in figlia e di nonna in nipote è stata tramandata arrivando fino a noi. Per farle occorrono pochi e semplici ingredienti. Per l’impasto di una dose:

3 uova intere;

3 cucchiai di zucchero;

½ bicchiere d’olio evo;

Circa 500g di farina 00.

Per la crema:

6 uova intere;

16 cucchiai di zucchero;

5 cucchiai di farina;

1l di latte fresco.

Indispensabile l’impiego dei «coni», che potrete comodamente reperire in ogni negozio di pasticceria ben fornito. I «coni» odierni sono in acciaio inossidabile, si lavano con facilità e vanno unti prima di essere usati. Sembrerà strano, ma i «coni» del passato non avevano proprio nulla da invidiare a quelli moderni: erano di stagno, ma per il resto si presentavano praticamente identici a quelli di oggi.

Era usanza tenerli «a mollo» nell’olio d’oliva, spesso lo stesso utilizzato durante la frittura, e conservarli in questo modo in ciotole o barattoli coperti, secondo una tecnica che ricorda vagamente (ma neanche troppo) quella delle salsicce sottolio. Questa metodologia permetteva alle massaie di recuperare di volta in volta i coni senza bisogno di ungerli da capo. Lavarli poteva del resto rivelarsi problematico, perché di acqua e sapone in casa ce n’erano sicuramente in quantità limitata; inoltre lasciare i coni unti ad aria e sole avrebbe di contro irrancidito il sapore l’olio, rendendolo di fatto inutilizzabile.

La produzione delle totere iniziava allora (ed inizia anche oggi) in occasione delle feste patronali di Santa Reparata, che si tengono dal 7 al 9 di ottobre. Fino a tutto gennaio, quando il freddo permetteva di conservare la crema anche senza frigorifero, le totere la facevano da padrona, diventando il dolce tipico del Natale casolano.

E sono a ben guardare un dessert ricercato, particolarmente adatto per le occasioni importi. Fragranti e cremose, le totere presentano ancora quel loro sapore dal tono delicato e latentemente antico, che nulla ha a che vedere con il tipo standard “bombolone alla crema”, né al classico dolce super zuccherato a cui il mercato nazionale ed internazionale ci ha rapidamente assuefatti. La stessa crema utilizzata con la farcitura ha ben poco di “pasticcero”, e per questo ci piace chiamarla “casalinga”: perché, tanto per cominciare, non è gialla-canarino, ma (guarda caso) color crema; e perché poi soprattutto conserva tutta la leggerezza e la bontà degli ingredienti naturali al cento per cento, come le uova delle galline allevate alla “maniera” dei nostri nonni, e il latte appena munto.

Ventinove anni e un nome insolito. Ho cominciato a scrivere storie poco più tardi di quando ho cominciato ad ascoltarle, prima da mia madre, poi da mia nonna, poi da chiunque ne avesse una da raccontare.

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