Medioevo

Curarsi nel medioevo: strane pratiche per guarire dalle malattie

Per tutto il medioevo la scienza medica si basò sulle poche idee sopravvissute al mondo antico e conservatesi, per il loro fama e per la loro autorevolezza, nelle biblioteche dei monasteri. Ippocrate e Galeno, i due grandi medici dell’antichità, vissuti rispettivamente nel V secolo a. C. e nel II secolo d. C. rimasero a lungo i soli possibili punti di riferimento. Si aggiunse alle loro teorie l’idea cristiana che la vita dell’uomo fosse soggetta al destino e influenzata dal peccato, dagli astri e naturalmente da Dio. La guarigione dipendeva quindi soprattutto dai fattori esterni, indipendenti dagli uomini, e fu chiaro fin dal principio che esistesse un forte legame tra la malattia e il peccato.

Durante la peste del 590 d. C., papa Gregorio I dichiarò che l’epidemia non fosse altro che una punizione divina, a cui solo il pentimento e le buone azioni potevano porre rimedio. Si arrivò persino a pensare che la professione del medico fosse indegna, poiché si opponeva con mezzi umani al volere celeste, e alcune patologie vennero considerate il castigo in terra per gli uomini peccatori. La lebbra, molto diffusa ed insanabile con le conoscenze del tempo, fu una di queste: si credeva infatti che, con le sue infezioni corporali, mostrasse per riflesso una corruzione più profonda: quella dell’animo umano.

Anche il dolore andava sopportato con cristiana rassegnazione e il modo migliore per guarire era sempre di rimettersi alla volontà di Dio: in linea di massima quello che succedeva negli ospitali, dove la cura più diffusa era il riposo, un tetto sulla testa e un pasto caldo. Sembrerà banale, ma tutto ciò la dice lunga sulle difficili condizioni della vita di quegli anni.

Esistevano quindi dei modi per “opporsi” alle malattie? C’erano ricette da seguire per una buona guarigione? E come i medici del tempo interpretavano l’esistenza di infezioni, dolori e malanni?

La teoria degli umori: una “scienza” medica.

Nel medioevo non esisteva il concetto di ricerca e gli studi erano basati perlopiù su dissertazioni, discussioni e interpretazioni di testi scritti molti secoli prima. Per questo non esistevano conoscenze, ma unicamente dottrine e la più significativa di tutte era quella degli umori.  

Ideata da Ippocrate ed avvalorata da Galeno, la teoria umorale era basata sull’idea che il corpo umano fosse composto da quattro sostanze: il sangue, il flegma (ovvero il muco delle vie respiratorie), la bile gialla e la bile nera. Il benessere dell’individuo dipendeva solo e soltanto dal loro equilibrio.

Un eccesso o una mancanza anche di uno solo di questi fluidi poteva portare a scompensi, ed era così che si giustificavano le malattie. La febbre, ad esempio, era il risultato di una sovrabbondanza di calore emanata dal sangue, e c’era un solo modo per risolverla: trovare un equilibrio.

Riequilibrare gli umori era il modo più efficace, se non l’unico, per guarire dai malanni, dai dolori e dalle infezioni. I fluidi in eccesso andavano ridotti, quelli carenti aumentati. Si consigliava quindi di introdurre sostanza opposte a quelle sovrabbondanti, e si prevedevano salassi, purghe o sostanze emetiche. I salassi si eseguivano con strumenti chirurgici o con l’impiego di mignatte o sanguisughe, mentre erbe diuretiche o lassative erano usate per favorire l’evacuazione. Ferite infettate o problemi cutanei si risolvevano perlopiù accelerandone la suppurazione; febbre e raffreddore si riducevano con impacchi e decotti di melissa, che provocavano sudorazione e quindi riduzione del calore.

Un buon physicus, il medico teorico, era capace di capire su quali fluidi andare ad agire. Lo faceva praticando l’uroscopia, ovvero l’analisi delle urine, che potevano essere osservate, annusate e all’occorrenza “assaggiate”. La stessa cosa avveniva con il sangue e se necessario con le feci.

Le medicine medievali.

Sempre partendo dalla teoria degli umori, era possibile formulare cure a base di ebre che accelerassero la regolarizzazione dei fluidi corporei. Senz’altro si assegnavano diete e si consigliava il riposo, ma laddove tutto questo non fosse bastato si poteva ricorrere a piante, radici e semi con poteri curativi o perlomeno supposti tali.

Le piante in genere si assumevano con decotti, con sciroppi o attraverso fumigazioni. Se ne potevano ricavare oli e unguenti da applicare sulle ferite, ed essiccate e bruciate alcune erbe erano utili per disinfettare gli ambienti, come avveniva con l’incenso. Efficaci erano anche i bagni e le abluzioni. In certi casi le erbe si assumevano singolarmente, in altri combinate tra loro. Certe erano specifiche per alcuni disturbi, certe altre versati ed utili a risolvere un’infinità di problemi.

Salvifica già dal nome, la salvia, che era nota già dall’antico Egitto per le sue doti curative, usava come digestivo, come calmante e come antisettico. I decotti di salvia erano utili contro il mal di stomaco ed attenuavano gli aliti maleodoranti. In un tempo in cui l’igiene orale era praticamente inesistente, risciacqui con la salvia erano utili anche per disinfettare il cavo orale.

Per il mal di stomaco e la nausea si usavano anche piante come il finocchio, la menta e la melissa. La radice di genziana era utile per ripulire il fegato. Mal di testa e dolori articolari si risolvevano con essenze dai profumi dolci, come la rosa, la lavanda e il fieno. Si consigliava per questo di appendere in casa ghirlande e mazzi di erbe essiccate, di farne fumigazioni e bagni. Per contusioni e gonfiori si usavano l’alloro e l’arnica, che andavano bene come lenitivi o sulle punture di insetti. Piaghe, ustioni ed altri problemi cutanei potevano essere curati con l’iperico o con l’aloe. L’unguento di cavolo rosso pare fosse utilissimo sulle ferite fresche.

Come disinfettante si usava l’aceto. Non esisteva l’anestesia, ma erano comunque diffuse sostanze analgesiche ed antidolorifiche, come l’estratto di salice bianco, l’oppio e derivati oleosi della canapa indiana. Il decotto di papavero poteva essere usato come narcotico e calmante. Durante le operazioni chirurgiche si impiegava una particolare «spugna sonnifera» che, riscaldata e respirata, era utile contro il dolore. Questa spugna di mare, nota come spongia somnifera, era lasciata a bollire per ore in una miscela di oppio, giusquiamo, succo di more acerbe, foglie di rovo, edera rampicante, papavero e belladonna, ed aveva una potente azione sedativa. Si faceva rinvenire a bagnomaria e si poi annusare. Alcune delle sostanze di cui era impregnata, la belladonna e l’edera ad esempio, oggi sono considerate tossiche.

Non era però le sole piante velenose ad essere impiegate come medicinali: la cicuta e l’elleboro, note per le loro proprietà anestetiche ed antidolorifiche, erano usate per ridurre il dolore, ma naturalmente in grandi quantità si rivelarono mortali. Il prezzemolo, che è tossico se assunto in grandi dosi, era usato come sostanza abortiva e non di rado causava con l’aborto anche la morte delle madri.

I libri sacri dell’erboristeria medievale.

La maggior parte di queste conoscenze era raccolte in famosi manoscritti del tempo. Uno dei più importanti era il De Materia Medica, di Dioscoride Pedanio (medico greco del I secolo d. C.): un testo molto famoso, che descriveva seicento diverse piante, fornendo guide, indicazioni ed illustrazioni botaniche miniate. A riprova della sua importanza, questo libro è giunto fino a noi ed è grazie alle sue pagine che conosciamo molti dei rimedi usati durante il medioevo.

Non bisogna però dimenticare che gran parte della medicina erboristica risaliva alle tradizioni popolari, alcune delle quali avevano origini antichissime e rimasero in uso, soprattutto nelle campagne, almeno fino al secondo dopoguerra. Così alla scienza “dotta” del medioevo e dei secoli a venire si mescolerono credenze magiche o religiose relative al trattamento e alla raccolta delle erbe. Alcune piante, come l’iperico, la ruta e l’artemisia si raccoglievano ad esempio soltanto nella notte di San Giovanni. Per altre bisognava tener conto delle fasi lunari.

La Chiesa medievale cercò di contrastare molte di queste credenze, poiché considerate troppo pagane, ma il più delle volte finì per assorbirle, proponendo una visione cristiana che tutto sommato serviva soltanto a giustificare conoscenze già sedimentate. Questo accadde per esempio con la così detta «dottrina dei segni», che cercava di interpretare razionalmente le forme della natura per motivarne l’utilizzo in medicina.

La signatura rerum: la dottrina dei segni.

Secondo questa antica credenza, sostenuta già da tempo da Dioscoride e Galeno, piante con forme simili a talune parti del corpo andavano usate per curare quelle stesse parti. La polmonaria, ad esempio, con le sue foglie a forma di polmone, s’impiegava per curare le malattie toraciche, mentre l’eufrasia, i cui fiori ricordano dei piccoli occhi, poteva migliorare le infezioni oculari.

La dottrina dei segni era basata sull’idea che Dio avesse messo a disposizione dell’uomo certe sostanze curative, segnalandole con l’impressione di un “marchio”: un marchio che era in realtà una forma o un colore, e che poteva essere riconosciuto e interpretato facilmente. Per questo alcune erbe dai fiori gialli, come la celidonia, s’impiegavano contro l’itterizia. Era una specie di contrappasso per analogia applicato alla natura.

La teoria della signatura non era però esclusiva dei vegetali: si poteva applicare a sostanza animali o minerali. Per questo non era raro che si usassero anche impacchi di terra o argilla per fermare le emorragie, o misture di sterco di maiale per arrestare il sangue dal naso. Era un’idea diffusa che tutto in natura potesse essere usato, proprio perché messo a disposizione da Dio.

Cure utili?

A noi sembra piuttosto difficile credere che metodi di questo tipo abbiano davvero funzionato. Ma c’era del vero nelle credenze della medicina medievale?

In uno studio pubblicato sul finire dell’Ottocento, l’American dispensatory di John King, si elencarono una serie di proprietà medicamentose delle erbe medievali e vanne fuori che alcune di queste avevano effettivamente delle proprietà benefiche. L’elleboro, ad esempio, assunto in piccole dosi sembra davvero anestetico; l’aloe ha proprietà cicatrizzanti riconosciute; l’estratto di salice bianco è tuttora usato come principio attivo per l’aspirina.

Per cui alcuni di questi rimedi ebbero probabilmente dei risultati. O almeno in teoria potrebbero averne avuti.

Sicuramente infatti uno dei grandi problemi della medicina medievale fu l’assenza di dosaggi precisi, che in molti casi portò al fallimento o addirittura alla morte. Inoltre non è difficile credere che alcuni dei rimedi fossero peggio dei mali: pensiamo ad esempio ai salassi o all’uso di sostanze come lo sterco animale. I salassi indebolivano gli ammalati e non era difficile prendere il tetano per aver messo impacchi di letame su una ferita.

In certi casi circolavano poi credenze completamente errate, come quella secondo cui l’infezione si passasse con il contatto visivo o che le malattie si propagassero a causa della troppa aria. E la non conoscenza di un concetto fondamentale come quello dell’igiene contribuì sicuramente a trasformare cure anche utili in interventi mortali.


Fonti:

B. De Corradi, A. Giardina, B. Gregori, Profili di storia antica e moderna, vol. D.

A. Langley, La vita nel medioevo.

Focus Storia (rivista) – Settembre-luglio 2011 (n°57-59).

A. Angela, Silvestro un medico tra i pellegrini di Assisi, Come eravamo, vol. XI.

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3573364/

http://www.treccani.it/enciclopedia/la-scienza-bizantina-e-latina-la-nascita-di-una-scienza-europea-medicina-chirurgia-e-farmacologia_%28Storia-della-Scienza%29/

http://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/beauty_fitness/2018/04/28/streghe-e-guaritrici-ecco-lerbario-minimo-dal-medioevo-ad-oggi-lo-usiamo-ancora_90d1963c-c49c-477a-a21a-3ab766a6d63d.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Teoria_umorale

https://it.wikipedia.org/wiki/Dottrina_delle_segnature

https://en.wikipedia.org/wiki/Doctrine_of_signatures

Ventinove anni e un nome insolito. Ho cominciato a scrivere storie poco più tardi di quando ho cominciato ad ascoltarle, prima da mia madre, poi da mia nonna, poi da chiunque ne avesse una da raccontare.

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