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La controversa storia di Emily Davison: la suffragista che conquistò il diritto di voto per le donne

La storia di oggi inizia in un giorno di festa come tanti nell’Inghilterra della Belle Epoque. È il 4 giugno del 1913 e re Giorgio V sta assistendo alla corsa di cavalli nel Derby di Epsom. Tra la folla c’è una donna che scalpita, sgomita e spinge per arrivare in prima fila. Sembra solo una spettatrice più maleducata delle altre, ma improvvisamente, eludendo la sicurezza, si lancia sulla pista. Il purosangue del re, cavalcato da un fantino di nome Herbert Jones, sta passando in quello stesso istante; donna e cavallo si scontrano. L’evento per lei sarà fatale.  

Emily Davison, volto emblematico del movimento delle suffragette inglesi, è appena entrata nella storia con il suo gesto drammatico.

Ma chi era quella donna? Cosa l’ha spinta a compiere un passo tanto avventato? Il suo fu un semplice incidente o si trattò di un suicidio?

L’attivismo di Emily Davison.

Caparbia e spericolata attivista del movimento femminista di inizio secolo, Emily Wilding Davison nacque a Londra l’11 Ottobre del 1872. Fu già da bambina studentessa molto brillante, in un tempo in cui l’educazione scolastica femminile era proibitiva ed escludente per la maggior parte delle ragazze. Arrivò persino, dopo il diploma, ad iscriversi all’Università di Oxford, ma non poté mai ottenere un titolo ufficiale: all’epoca le donne potevano iscriversi all’Università ma non era permesso loro laurearsi.

Nel 1906 Emily entrò a far parte della WSPU, la Woman’s Social and Political Union fondata pochi anni prima da Emmellin Pankhurst, che a partire dai primi del Novecento guidò il movimento delle suffragette nel Regno Unito, portando avanti numerose battaglie per i diritti delle donne, tra le quali spiccava quella per il diritto di voto a livello nazionale. Con la legge comunale del 1835 era infatti stato concesso alle donne il diritto di voto ma limitato soltanto alle elezioni locali.

Grazie alle sue brillanti doti ed al carattere fiero e combattivo, Emily divenne sin da subito uno degli elementi più importanti della Union, tanto da abbandonare il proprio lavoro per dedicarsi a tempo pieno all’attivismo politico. Le cronache ce la descrivono come una donna battagliera e decisa, tra le più audaci e temerarie militanti del suo tempo. Prese parte a diversi disordini politici e fu più volte imprigionata per proteste ed atti che andarono dalla sommossa all’ostruzionismo al lancio di pietre contro le finestre degli edifici del potere.

Al suo primo arresto, avvenuto nel marzo 1909 per «assalto alla polizia nell’atto di compiere il proprio dovere» ne seguì un secondo in luglio, per aver fatto irruzione in un incontro politico il cui ingresso era vietato alle donne. Imprigionata per due mesi, Emily iniziò la protesta non-violenta dello sciopero della fame, sperimentata per la prima volta qualche tempo prima dalla suffragetta Marion Dunlup e destinata a diventare molto comune tra le femministe rivoluzionarie del primo Novecento.

Molte suffragette incarcerate usarono lo sciopero della fame come atto di protesta: per settimane intere rifiutarono il cibo al punto che, il governo inglese, preoccupato all’idea che potessero morire in cella, diventando così martiri del movimento, introdusse la possibilità di liberarle allo stremo delle forze. Le prigioniere venivano rilasciate quando sembravano quasi sul punto di morire ed incarcerate di nuovo a distanza di qualche mese, secondo i dettami di una legge comunemente nota come Cat and Mouse Act (“legge del gatto e del topo”).

Fu quel che accadde ad Emily nel corso della prima prigionia: la donna ne uscì dimagrita di nove chili e mezzo ed estremamente debilitata, ma questo non la convinse ad abbandonare la politica della protesta. Fu arrestata e nuovamente incarcerata a settembre, e poi ad ottobre. In quest’ultima occasione le guardie carcerarie tentarono di combattere il suo sciopero della fame nutrendola a forza, esperienza che la stessa Davison raccontò come “indescrivibile e barbarica”, qualcosa che l’avrebbe tormentata per tutta la vita.

Emily non fu del resto la sola a subire questa tortura brutale: si hanno notizie di molte donne alimentante a forza nelle prigioni di quel tempo, attraverso metodi violenti e dolorosi, oltre che psicologicamente strazianti e pericolosi: in qualunque momento poteva andar storto qualcosa, col rischio che le prigioniere morissero soffocate.

In seguito a questo evento, ancora in cella e nel terrore che potessero ripetere l’esperienza, Emily tentò di barricarsi dentro, usando letto e sgabello come barriera ed impedendo ai carcerieri di entrare, ma questi sfondarono la finestra della stanza e da lì, per quindici lunghi minuti, gettarono acqua all’interno con una pompa antiincendio. La cella fu invasa da oltre sei pollici di acqua gelida ed Emily ne fu tratta fuori, portata in ospedale e poi finalmente liberata.

Per tre anni, dal 1910 al 1912, la donna continuò ad entrare ed uscire di prigione per una serie disparata di gesti di protesta. Ancora in carcere nel 1911, dopo aver iniziato per l’ennesima volta lo sciopero della fame ed esser stata condannata all’alimentazione forzata, Emily si gettò dalla balconata interna della prigione, volando a terra da un’altezza di oltre venti piedi.

In una dichiarazione poco successiva la Davison affermò che quel gesto fosse stato premeditato: una grande tragedia che avrebbe potuto evitarne molte altre.

«L’ho fatto deliberatamente con tutte le mie forze; sentivo che nulla se non il sacrificio di una vita umana potesse mostrare alla nazione la tortura orribile che le nostre donne affrontano. Se ci fossi riuscita, sono certa che nessuno avrebbe più fatto ricordo all’alimentazione forzata.»

(E. Davison, The Pall Mall Gazette, 19 settembre 1912).

Forse fu proprio a causa di questa dichiarazione così estrema che alcuni pensarono, a due anni di distanza, che la Davison volesse togliersi la vita durante l’incidente del derby di Epsom.

Da quel tentativo fallito Emily ottenne la rottura di due vertebre, che le compromisero malamente il capo per tutto il resto della vita. Le sue azioni, fino a quel momento accolte con entusiasmo dal movimento, divennero via via meno convincenti. Fu ostracizzata per aver compiuto troppe volte azioni indipendenti, senza attendere le istruzioni ufficiali, e pian piano uscì dai favori della Union. Ma neanche questo fu sufficiente a fermarla: nel novembre del 1912 Emily fu arrestata per l’ultima volta e condannata a dieci giorni di reclusione; per la settima volta iniziò lo sciopero della fame e per la quarantanovesima fu costretta all’alimentazione forzata.

La morte e l’ipotesi del suicidio

Si arrivò così a quel disgraziato giorno: il 4 giugno 1913.

Emily viaggiò fino ad Epsom per partecipare al Derby e prese posto nel Tattenham Corner, l’ultima curva prima del rettilineo di arrivo. A quel punto della gara, non appena un gruppo di cavalli superò la curva, la donna scavalcò improvvisamente le barricate e corse dentro la pista, come se volesse afferrare le briglie del cavallo del re. Ma l’animale, che viaggiava ad oltre 50 km all’ora, la travolse dopo pochi passi e la sbalzò a terra, trascinando con sé anche il fantino, Herber Jones.

Emily era già fuori coscienza quando toccò il suolo. Alcuni dissero che il cavallo le avesse calpestato, o calciato, la testa, benché dalle analisi chirurgiche non emersero segni che potessero confermarlo. Tutto l’evento è stato catturato da tre telecamere del Pathé News ed è ancora visionabile.  

Cosa avesse in mente Emily Davison quel giorno è tuttora fonte di grande dibattito. Dopo esser stata trasportata in ospedale, la donna attese due giorni prima di essere operata; due giorni durante i quali non riprese mai conoscenza. Morì l’8 giugno per una frattura alla base del cranio.

Si trattò di un evento premeditato o di una tragica fatalità? I giornali del tempo descrissero l’avvenimento come il suicidio di una donna mezza matta, senza fare alcun riferimento al suo attivismo politico, né alle circa cinquemila donne che parteciparono al suo funerale, indossando i colori bianco e viola delle suffragette.

Molti, nel tentativo di screditarla, sostennero che Emily avesse tentato volontariamente la morte, nella speranza che il suo gesto la martirizzasse in difesa della causa suffragista. Le sue compagne tuttavia affermarono a lungo che l’intenzione di Emily fosse in realtà quella di attaccare la bandiera viola e bianca del WSPU alle briglie del cavallo del re, così che questa sventolasse fino al traguardo, dando visibilità al movimento femminista.

Effettivamente tra gli effetti personali della donna furono trovate due bandiere, il biglietto di ferroviario di ritorno, un biglietto per il ballo delle suffragette di quello stesso giorno e un diario che indicava gli appuntamenti dell’intera settimana, elementi che darebbero da pensare che Emily avesse in realtà tutta l’intenzione di rientrare a casa quella sera. Ma non parlò a nessuno dei suoi piani, né lasciò note scritte. Si suppose anche che volesse semplicemente attraversare la pista, pensando che tutti i cavalli fossero ormai passati.

Il re e la regina che erano presenti all’evento si lamentarono di quella drammatica conclusione, interessandosi subito alla sorte del cavallo e del fantino, e non a quella Emily, che descrissero come “orrida” e dal comportamento “scandaloso”. Il fantino raccontò di aver visto una donna che tentava di aggrapparsi alle briglie ed una bandierina ritrova a terra fece pensare che effettivamente Emily avesse tentato di attaccarla al cavallo.

Non vi furono evidenze per accertare che la morte fosse un suicidio: il verdetto della corte stabilì che si tratto di una tragica fatalità. Molti anni dopo, nel 2013, i filmati originali sono stati analizzati e scandagliati alla ricerca di dettagli dimenticati ed è venuto fuori che Emily avesse davvero con sé una bandiera, la stessa che venne ritrovata al suo subito dopo la sua caduta.

Come l’evento cambiò la storia.

La morte di Emily segnò il culmine delle proteste femministe.

Non tutti i media del tempo simpatizzarono per lei: molte pubblicazioni la descrissero come insana, miserabile e maligna; una donna in cerca di un martirio grottesco e senza senso; ma ben diversa fu la reazione nel movimento femminista: le suffragette stamparono manifesti che raffiguravano la Davison in forma di angelo davanti alle barricate della corsa; fu scritto che Emily «morì per le donne» e che avesse sacrificato la vita in «atto glorioso, altruista e di grande ispirazione». Si arrivò ad associare il suo gesto a quello cristiano del sacrificio di Gesù per gli uomini.


Forse quindi ciò che Emily credeva, e cioè che il sacrificio di una sola persona potesse risparmiarne molti altri, era vero: un anno dopo la sua morte, anche in concomitanza con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, il governo rilasciò molto suffragette incarcerate ed interruppe la pratica dell’alimentazione forzata. L’orrore del conflitto pose un freno alle proteste, ma fu anche un trampolino di lancio per una nuova coscienza di genere: con gli uomini impegnati al fronte furono le donne a mandare avanti la società e a sostituirli nella maggior parte dei lavori. Nacquero così nuove istanze e un nuovo senso di indispensabilità del ruolo femminile, che portarono finalmente, nel 1928, al suffragio universale per tutte le donne del Regno Unito.

Fonti:

https://www.biography.com/activist/emily-davison

https://en.wikipedia.org/wiki/Emily_Davison

https://en.wikipedia.org/wiki/Prisoners_(Temporary_Discharge_for_Ill_Health)_Act_1913

http://www.sapere.it/sapere/strumenti/domande-risposte/storia-civilta/chi-erano-le-suffragette.html

https://en.wikipedia.org/wiki/Suffragette

https://it.wikipedia.org/wiki/Suffragette

http://www.treccani.it/enciclopedia/femminismo/

https://en.wikipedia.org/wiki/Prisoners_(Temporary_Discharge_for_Ill_Health)_Act_1913

Ventinove anni e un nome insolito. Ho cominciato a scrivere storie poco più tardi di quando ho cominciato ad ascoltarle, prima da mia madre, poi da mia nonna, poi da chiunque ne avesse una da raccontare.

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