Novecento

La fine dei Romanov: gli ultimi giorni della famiglia dello Zar

La storia di oggi comincia in un luogo che ormai da anni non esiste più, una casa che per qualche tempo qualcuno chiamò “La casa di destinazione speciale”. Era la residenza dell’ingegnere militare Nikolaj Nikolaevič Ipat’ev, il quale sulla fine di aprile del 1918 fu convocato dall’ufficio dei Soviet degli Urali con un solo e semplice scopo: abbandonare al più presto l’edificio, che di lì a qualche mese avrebbe ospitato una delle più brutali ed efferate esecuzioni del Novecento: quella della famiglia Romanov.

I mesi della prigionia.

Era la primavera del 1917 quando la Russia, fiaccata dalla guerra e sconvolta dalla carestia, rovesciava il sistema zarista, deponendo definitivamente la monarchia nella figura dello zar Nicola II. Era la prima delle due rivoluzioni russe, che nell’arco di pochi mesi avrebbero portato all’istaurazione di una nuova forma di governo: il regime sovietico.

Il 23 febbraio del calendario russo, il popolo insorse a Pietrogrado, oggi San Pietroburgo, al tempo capitale dell’impero. A distanza di pochi giorni, Nicola annota nel suo diario che anche le truppe zariste hanno preso parte all’insurrezione e che si ritrova solo e senza sostegno. Tra il 14 e il 15 marzo è costretto ad abdicare: l’atto viene firmato nel vagone privato dello zar, che i testimoni descrivono “apatico” e “quasi indifferente”, benché Nicola quella stessa sera confessa tra le sue note di essersi sentito un “sopravvissuto”, circondato da tradimento e viltà.

Formalmente l’abdicazione è in favore del fratello Michail, il quale trasferisce subito il potere al Governo Provvisorio, nelle mani del principe eletto Georgij Lvov. Nicola esprime allora il desiderio di trasferirsi in campagna e per i primi mesi viene condotto prigioniero nel Palazzo di Alessandro a Carskoe Selo, pochi chilometri a sud di Pietrogrado, dove lo attende il resto della famiglia: la zarina Alessandra e i cinque figli, Olga, Tatiana, Maria, Anastasia e lo zarevic, il giovane Alessio di appena 13 anni.

Nonostante la reclusione, i continui scherni da parte delle guardie e le sentinelle schierate fuori dal palazzo, i mesi a Carskoe Selo sono relativamente tranquilli: la famiglia si dedica al giardinaggio e all’orticoltura. L’elezione in luglio di Aleksandr Kerenskij alla guida del Governo Provvisorio sembra aprire uno spiraglio di speranza nei prigionieri, ma in agosto, per ragioni di sicurezza, la famiglia imperiale viene trasferita a Tobol’sk, a oltre 2800 km dalla capitale.

Altri aristocratici, tra cui il fratello dello zar, Michail, vengono spostati nello stesso periodo in varie località della Siberia. Kerenskij ha in mente di espatriare l’ex-sovrano, la moglie e i cinque figli non appena la situazione si farà più tranquilla, ma gli eventi precipitano all’improvviso.

A ottobre scoppia una seconda rivoluzione e i bolscevichi prendono il sopravvento, insediando Lenin a capo del nuovo governo. Nicola e la famiglia vengono trasferiti di nuovo, questa volta a Ekaterinburg, nella casa che è stata Nicolaj Ipat’ev: sarà la loro ultima dimora.

The Imperial spading the ground for a vegetable garden behind the Alexander Palace, 1917 April – Tatiana carrying a litter of dirt, Nicholas standing with spade in hand.

La casa di destinazione speciale.

Nicola, Alessandra e Maria giungono a casa Ipat’ev il 30 aprile. Un mese più tardi arriva anche il resto della famiglia. Con loro ci sono il dottore Evgenij Botkin, la cameriera Anna Demidova, il cuoco Ivan Charitonov e il valletto Aleksej Trupp. Fin da subito è chiaro che le condizioni della loro prigionia sono cambiate: il regime a Ekaterinburg è molto più duro. Alla famiglia è proibito uscito dalla casa, parlare con le guardie, usare qualunque lingua diversa dal russo.

Vengono loro requisiti i bagagli e confiscati beni e gioielli. Dinanzi alla casa viene eretta una doppia palizzata alta quattro metri, che ostacola la vista dall’esterno. Tutte le mura e tutte le porte sono costantemente sorvegliate dai soldati: ce ne sono 19 e hanno libero accesso a tutte le stanze della casa. I Romanov possono uscire in giardino per pochi minuti al giorno, non possono fare sport, non possono affacciarsi alle finestre. Sono obbligati a suonare una campanella ogni volta che lasciano le loro stanze per andare in bagno o per lavarsi. Non possono ricevere visite o lettere, persino i giornali e le funzioni religiose sono vietate. Poche settimane dopo il loro arrivo, tutti i vetri della casa vengono oscurati e sigillati da grate.

È Jakov Michajlovič Jurovskij, membro del Soviet degli Urali e Commissario di giustizia sovietico, a guidare l’operazione. Con ogni probabilità è stato inviato da Lenin, anche se il coinvolgimento quest’ultimo nell’operazione non è ancora ad oggi stato confermato. Con Jurovskij ci sono oltre cinquanta soldati, e ulteriori uomini scelti continuano ad affluire nelle settimane che seguono: al momento della strage si contano circa 300 soldati tra quelli schierati intorno all’edificio e quelli asserragliati a Casa Popov, situata lì di fronte. Quattro cecchini sono posti di guardia al sito.

A Mosca nel frattempo i bolscevichi iniziano a fare pressione perché i Romanov vengano processati. Si diffonde il timore che l’Armata Bianca, composta da forze anti-comuniste, possa raggiungere Ekaterinburg e liberare i prigionieri, proclamando di nuovo il regime zarista. Pur essendo ormai soltanto Nicola Romanov, quest’uomo rimane comunque il legittimo regnante della Russia e, con le altre nazioni europee spaventate dall’avanzata sovietica, la paura più grande è che lo zar possa diventare un baluardo dei reazionari.

Effettivamente a metà luglio del 1918 la Legione Cecoslovacca, che combatte al fianco dell’Intesa, è ormai alle porte delle città. È possibile che questo evento acceleri le operazioni: la convinzione che i cecoslovacchi vogliano liberare i Romanov, getta nel panico i bolscevichi e li spinge ad eliminare al più presto tutti i membri della famiglia imperiale.

Già sul finire di giugno il Soviet degli Urali si è accordato con il partito per giustiziare i Romanov. Il 12 giugno Michail, fratello di Nicola e suo successore, viene prelevato e fucilato a Perm’ e la stessa sorte tocca nei giorni a seguire ad altri funzionari e collaboratori dello zar.

Il 14 luglio l’operazione finale è decisa: Jurovskij è intenzionato a confinare la famiglia e i servitori presenti nella casa in uno spazio ristretto in modo che non possano fuggire. Si sceglie una stanza nel seminterrato, le cui pareti vengono imbottite per attutire il suono degli spari e delle urla. Sono state ideate anche altre soluzioni, ma Jurovskji ha in mente un’esecuzione efficiente e simultanea. Vuole eliminare insieme quelle undici persone e assicurarsi che nessuno si dia ad atti di violenza e sciacallaggio sui loro corpi dopo la morte.

Il 16 luglio alle sei del pomeriggio giunge un telegramma in codice a Mosca: è la richiesta di approvazione della soluzione finale. La risposta scritta non ci è pervenuta, ma sappiamo dallo stesso Jurovskij che venne confermata appena un’ora più tardi. Alle 20:00 viene diramato l’ordine di condurre davanti alla casa un camion per prelevare i corpi e rotoli di stoffa con cui avvolgerli. Prima di entrare in azione, Jurovskij assegna una vittima a ciascun killer e distribuisce le armi. Dà a tutti l’ordine di mirare al cuore.

Le ultime ore dei Romanov.

Quando Jurovskij entra nel salotto quella stessa sera, i Romanov stanno consumando la loro ultima cena. Annuncia che Leonid, il ragazzo che lavora in cucina e con cui lo zarevic Alessio è solito giocare, debba essere allontanato. È il segnale che qualcosa sta per succedere e forse la stessa famiglia imperiale lo percepisce. La zarina Alessandra appunta questo dettaglio tra le sue note, quella sera, chiedendosi se mai il ragazzo tornerà.

 A mezzanotte, tra il 16 e il 17 luglio 1918, Jurovskij ordina al medico Botkin di svegliare i Romanov e annuncia loro di prepararsi alla partenza: è loro intenzione, afferma, trasferirli in un posto più sicuro, al riparo dall’Armata Bianca che sta per entrare a Ekaterinburg. Mezzora dopo la famiglia imperiale e i quattro inservienti vengono condotti nella stanza al pianterreno.

Hanno con loro cuscinetti e piccoli oggetti. Si fermano in una stanza totalmente vuota. Tutti i mobili sono stati tolti. La zarina Alessandra chiede una sedia per sedersi, dopodiché Jurovskij dà ordine a tutti di disporsi in fila. Fa credere loro che siano lì per una foto di notifica.

Le undici persone vengono sistemate in due file: davanti i Romanov, dietro gli inservienti. Allora Jurovskij chiama il commando armato e dieci uomini si ammassano nella stanza. Ai Romanov viene detto che «in considerazione del fatto che i loro parenti continuano l’attacco alla Russia sovietica, il Comitato esecutivo degli Urali ha deciso di giustiziarli». Sappiamo dal resoconto dello stesso Jurovskij che Nicola ha solo il tempo di rivolgersi alla famiglia e chiedere: «Come? Come?», prima che il comandante apra il fuoco e lo colpisca al petto con tre pallottole del suo revolver.

Il segnale scatena il resto dell’assalto: la zarina e lo zarevic vengono finiti subito, poi è la volta delle figlie e del seguito. Servono molti colpi per far tacere le grida e annientare ciò che resta della famiglia.

A distanza di anni gli investigatori calcoleranno che ben 70 proiettili sono stati sparati in quella stanza. Con una certa probabilità la fine più dolorosa toccò alle ragazze: queste avevano cucito nei loro corpetti ciò che restava dei gioielli della corona e i diamanti e i topazi fecero rimbalzare i colpi, tanto che alcune di loro erano ancora vive quando vennero caricate sul camion che attendeva fuori dal seminterrato. La squadra di Jurovskij avrebbe scoperto i gioielli solo dopo, spogliandole degli abiti prima di procedere alla sepoltura.

L’eliminazione delle tracce.

Tutto il piano di Jurovskij era stato studiato nel dettaglio. Nessuno doveva sapere che con lo zar era stata eliminata tutta la famiglia. Per l’occultamento venne scelto il sito di una cava abbandonata. Due corpi furono dati alle fiamme e sepolti lungo la strada, quando la camionetta che li portava s’impantanò: l’operazione servì forse a depistare una possibile futura indagine.

Gli altri vennero spogliati e sfigurati, gettati nella cava e poi cosparsi d’acido solforico, che la squadra aveva acquistato in grandi dosi presso la farmacia di Ekaterinburg, qualche giorno prima dell’operazione. Tutti i gioielli ancora cuciti negli abiti vennero prelevati e divennero proprietà dello stato. Jurovskij sarebbe tornato in città con 8 kg di diamanti e un rapporto dettagliato sull’accaduto.

La notizia che venne diffusa il giorno seguente non corrispondeva però a verità: si disse che «per decisione del Soviet regionale» degli Urali, Nicola II era stato fucilato a Ekaterinburg «in un tentativo di fuga mentre le truppe cecoslovacche si avvicinavano alla città». Nessuno parlò della zarina, dei cinque figli e delle quattro persone del seguito imperiale che vennero giustiziate quella notte.

L’episodio non fu peraltro isolato: tra il 17 luglio del 1918 e il 28 gennaio del 1919 si provvide ad eliminare tutti i Romanov ancora in vita e i lati più oscuri della vicenda vennero abilmente insabbiati e ogni responsabilità del governo centrale negata. Solo nel 1979 sarebbero stati portati alla luce i resti della famiglia.

Le indagini e le responsabilità.

A partire dalla rivoluzione d’ottobre del 1917 fino ai primi del ’19 furono circa una ventina i membri della famiglia imperiale eliminati dal governo sovietico. C’era forse il timore che la loro esistenza bastasse da sola a rappresentare una minaccia per il nuovo stato: in quanto regnanti legittimi, i Romanov potevano diventare il simbolo della restaurazione e rendere vani gli sforzi fatti fino a quel con le due rivoluzioni. Probabilmente il sospetto e il timore, che il resto dei paesi europei nutrivano in quegli anni per il sistema sovietico, rese la loro eliminazione ancora più necessaria. Si voleva insomma evitare altre nazioni intervenissero, attraverso la famiglia dello zar, a rovesciare le sorti del governo sovietico. 

Secondo molti storici, tra i personaggi chiave dell’operazione c’era Vladimir Lenin, a capo del governo dall’ottobre del ’17, il quale avrebbe personalmente impartito le direttive, per poi preoccuparsi di distruggere ogni traccia del proprio coinvolgimento. Anche per questo è tuttora difficile affermare con certezza che Lenin sia stato il responsabile dello sterminio dei Romanov.

Le primissime indagini, risalenti al 1919, furono svolte dalle forze anti-comuniste dell’Armata Bianca che aveva conquistato Ekaterinburg pochi giorni dopo la tragedia, ma vennero interrotte immediatamente dopo dall’arrivo delle forze bolsceviche. L’unica sorte certa per molti anni riguardò Nicola II: sulla morte degli altri, almeno fino al 1922, la leadership sovietica mantenne il più assoluto riserbo, dando così adito a storie di sopravvissuti, avvalorate da impostori che cercavano di spacciarsi per membri della famiglia imperiale. Nel ’23 cominciarono a circolare le foto di Casa Ipat’ev durante gli ultimi mesi di prigionia dei Romanov e solo nel ’29 emersero i primi dettagli su quanto si fosse consumato al suo interno. Fin dal principio tuttavia si affermò che i corpi fossero stati cremati, così da sollevare il governo di Lenin da ogni responsabilità.

Nel 1977 il regime comunista ordinò la demolizione della casa, che oggi non esiste più.

Due anni dopo, nella primavera del ’79, Aleksandr Avdonin, ricercatore amatoriale, e il regista Gelij Rjabov, scoprirono il luogo della sepoltura, recuperando tre teschi che nessun laboratorio accettò subito di analizzare. I resti vennero allora ricondotti al loro posto e solo dodici anni dopo il rinvenimento, nel 1991, si decise di dissotterrarli nuovamente e sottoporli all’analisi del DNA.

La conferma che le ossa appartenevano alla famiglia imperiale si ebbe nel ’98. Tuttavia nella fossa mancavano due corpi: quello di Alessio e quello di una delle figlie più giovani, che almeno all’inizio si ritenne fosse di Anastasia. Jurovskij aveva infatti comandato di occultare lo zarevic e una delle ragazze lungo la strada, senza specificare di chi si trattasse.

I loro resti furono scoperti solo nel 2007. Gli esami del DNA l’anno dopo confermarono che fossero di Alessio e Maria, escludendo per sempre la possibilità che qualche membro della famiglia imperiale fosse sopravvissuto allo sterminio di Ekaterinburg.


Fonti:

https://www.repubblica.it/cultura/2017/10/23/news/rivoluzione_russa_l_ultimo_atto_il_massacro_dei_romanov-178761466/

https://it.wikipedia.org/wiki/Fine_dei_Romanov

https://it.wikipedia.org/wiki/Nicola_II_di_Russia

https://it.wikipedia.org/wiki/Casa_Ipat%27ev

https://it.wikipedia.org/wiki/Jakov_Michajlovi%C4%8D_Jurovskij

https://it.wikipedia.org/wiki/Legioni_cecoslovacche

https://tsarnicholas.org/category/nagorny-klementy-grigorovich/

https://it.wikipedia.org/wiki/Anastasija_Nikolaevna_Romanova

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Ventinove anni e un nome insolito. Ho cominciato a scrivere storie poco più tardi di quando ho cominciato ad ascoltarle, prima da mia madre, poi da mia nonna, poi da chiunque ne avesse una da raccontare.

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