Indagine sul Vampiro

Epidemia di vampiri in Europa: la verità sul sangue e i casi di vampirismo nel Settecento

Come avevo già accennato nell’articolo Tre storie di vampiri nell’Antica Grecia, la leggenda del vampiro, universamente conosciuto come non-morto che si muove di notte cibandosi di sangue umano, cominciò a circolare massicciamente con l’annessione nell’Impero Asburgico di alcuni territori est-europei, come l’Ungheria e la Serbia. Ma si potrebbe dire che la superstizione del vampiro abbia radici molto più antiche: ne parlano già, in una forma un po’ diversa, i resoconti medievali e i testi del Seicento, benché sia soltanto nel Settecento che le caratteristiche distintive di questa creatura, rese celebri da film e romanzi, vengono davvero alla ribalta

Quando pensiamo ai vampiri la prima cosa che ci viene in mente è che si nutrano di sangue umano: un’idea così radicata nel nostro immaginario ad aver modificato la fisionomia stessa del vampiro, ovunque rappresentato con due canini prominenti e acuminati. Eppure il vampiro succhiatore di sangue è per certi versi un’invenzione recente: almeno al principio infatti l’ematofagia non era un elemento così rappresentativo, ma soltanto qualcosa di… accessorio. 

Ma andiamo per gradi.

La seconda cosa che ci viene in mente pensando ai vampiri è un luogo: la Transilvania, che tutti consideriamo la patria di Dracula. Non è però da lì, o almeno non tanto da lì, che venivano le leggende dei vampiri: il vero «focolaio», se così si può chiamare, erano i territori slavi.

I vampiri nelle credenze slave.

Poco conosciamo della mitologia e delle usanze slave precedenti all’arrivo del cristianesimo e per questo non è facile capire cosa o come fosse il vampiro slavo delle origini. Sappiamo però che presso gli slavi era diffusa una visione fortemente dualistica delle forze della natura: l’uomo era pensato come essere di anima e corpo separati tra loro. L’anima, ritenuta imperitura, sarebbe stata in grado di staccarsi dal corpo in fasi liminali, durante il sonno ad esempio, e alla morte del corpo avrebbe vagato molti anni prima di trovare pace nell’oltretomba

Il vampiro, percepito sì come corpo, ma anche come ombra priva di fisicità, deve molto a questa concezione: non riflette la propria immagine nello specchio ed è in grado di uscire dalla propria tomba senza aprirla – le leggende slave sono molto vaghe su come il vampiro possa farlo senza scoperchiare le bare e sembrerebbero lasciare intendere che possa scivolare continuamente e confusamente dalla dimensione di corpo a quella di pura anima.

Nella cultura slava era del resto diffusa l’idea che demoni e spiriti potessero interagire con la vita degli uomini: alcuni di loro erano considerati buoni, come i domovoj o la kikimora, che proteggevano le case e aiutavano i loro abitanti, ma vi erano anche spiriti malevoli, che potevano causare danni ai raccolti, affogare i vivi nei corsi d’acqua o far ammalare il bestiame succhiandone il sangue. L’oltretomba poi era concepito come una realtà oscura e triste, così si credeva che le anime risorgessero in forma umana, presentandosi agli uomini come mendicanti o stranieri.

Tra gli slavi meridionali – e cioè tra serbi, sloveni, croati e bulgari – era credenza comune che i morti temessero il fuoco, in quando «spettri gelati», mentre in Boemia era costume tornare dai funerali senza guardarsi indietro o gettandosi alle spalle sassi e bastoni per coprire le tracce del proprio cammino nella paura di essere seguiti. James Frazer, antropologo e storico, riferisce che «i contadini slavi e bulgari» percepissero la «peste del bestiame come un demone immondo, un vampiro» appunto, che poteva essere allontanato creando una barriera di fuoco tra lui e le mandrie.

Un ulteriore aspetto interessante riguarda inoltre la stessa parola «vampiro», che deriverebbe proprio dal russo upir, attestato per la prima volta nel 1047 e poi ripreso in un testo databile tra il XIII e il XVI secolo (Sermone di San Gregorio) dove si dice che tra gli slavi sopravvivevano numerose pratiche pagane, tra cui i sacrifici agli upiri. Cosa però la fonte intenda con upiri resterà per sempre un mistero.

Nel complesso comunque sono poche le fonti precedenti al XVIII secolo a contenere riferimenti al vampiro succhiatore di sangue umano. Piuttosto sembrerebbe che i vampiri, in quanto morti che tornano, si nutrissero di cibo vero e proprio e non a caso era usanza lasciare nelle tombe cibo e bevande in forma di offerta, secondo un costume antichissimo e comune a moltissime credenze d’Europa e del mondo. 

Dove, come e quando sarebbe allora nata la leggenda del vampiro bevitore di sangue?

La storia di Peter Plogojowitz.

A giudicare dalle fonti in nostro possesso la risposta è: nel 1725 a Kasilova, probabilmente l’attuale Kisiljievo, in Serbia. Sembrerebbe infatti che uno dei primi vampiri attestati a nutrirsi di sangue umano abbia un nome e un cognome: si chiamava Petar Blagojević, era un pastore, e morì nel 1725 per ragioni non del tutto chiare. L’episodio sarebbe avvenuto nell’ambito di una serie di inchieste relative proprio ai casi di sospetto vampirismo est-europeo e ci viene raccontato da imperiale austriaco di nome Fromann, che il 21 luglio dello stesso anno lo pubblicò sul Das Wienerischen Diarium, uno dei principali giornali della Vienna del tempo. 

Del momento che Fromann parlava tedesco, il nome del protagonista della storia fu cambiato da Blagojević a Plogojowitz, e sarà così che lo chiameremo anche noi.

La Serbia, dunque, sulle soglie del Settecento. Vale la pena di spendere qualche parola in più su quella che era la situazione storico-sociale che avremmo incontrato in quei luoghi: la Serbia stava vivendo un grave momento di instabilità politica, essendo passata sotto il controllo austriaco da meno di un decennio. Come vi accennavo, inoltre, anche se l’Età dei Lumi, nel territorio si susseguivano da anni voci di avvistamenti di vampiri, con conseguenti disordini sociali ed isterie collettive che causavano il panico tra i villaggi.

Probabilmente nessuno prima di questa data sapeva cosa stesse accadendo da quella parte, e fu proprio la conquista della Serbia a far scoperchiare una specie di vaso di Pandora che, tra gli altri problemi, conteneva anche paesani terrorizzati al pensiero che i morti potessero risorgere dalle tombe. La situazione dovette sembrare di una certa gravità, perché il governo centrale austriaco decise di mandare sul posto degli ufficiali incaricati di indagare e Fromann, il nostro cronista di prima mano, era proprio uno di questi.

Peter Plogojowitz, presunto vampiro, era morto nel bel mezzo di questo caos e per cause che non conosceremo mai per certo. Ciò che sappiamo, grazie a Fromann, è che nella settimana successiva al suo decesso nel villaggio si registrarono ben nove morti improvvise: uomini e donne, colpiti da una malattia misteriosa, perirono nell’arco di ventiquattro ore e alcuni di loro, nel letto di morte, affermarono di essere stati visitati durante il sonno dallo spettro di Plogojowitz, che avrebbe giaciuto su di loro nel tentativo di soffocarli, secondo una modalità che sembra appartenere più agli incubi notturni che al vampiro.

È possibile che Plogojowitz avesse avuto la sfortuna di morire per primo di una malattia misteriosa che era poi passata ad altri, ma in un clima difficile e scandito dalle superstizioni oltre che dalle paure popolari l’uomo divenne la causa diretta o indiretta di tutte le morti successive. Fromann scrisse infatti che secondo gli abitanti Plogojowitz era diventato un vanpir e che per questo andava esumato e neutralizzato. È la prima volta che il termine vanpir compare in un testo di lingua tedesca e sarà così che passerà al francese e poi alle altre lingue europee.

Stando al resoconto, Fromann accettò di analizzare il corpo disseppellito e annotò dei particolari interessanti: c’era assenza di odore, il corpo eccetto il naso era intatto, i capelli erano cresciuti, la pelle, di colore biancastro, si era staccata e una nuova ne era emersa al di sotto, gli arti avevano un aspetto vitale e – cosa stupefacente, sottolinea l’ufficiale – il cadavere presentava sulle labbra del sangue fresco. Fromann aggiunse che «secondo l’opinione generale» Plogojowitz aveva «succhiato il sangue alle persone da lui uccise», e il sangue ne era evidentemente la conferma.

Alla profanazione di Plogojowitz seguì una serie di riti che ci sono famigliari: il suo cuore venne trafitto, facendo sgorgare sangue fresco, e il suo cadavere fu bruciato. Dall’esumazione delle altre vittime non emersero ulteriori segni di vampirismo.

Spedito in patria e pubblicato, il resoconto di Fromann fece scalpore. Subito dopo la prima edizione venne ripreso e rimaneggiato e poi tradotto in inglese e in francese ed esportato all’estero. Ad ogni nuova versione gli autori aggiunsero abbellimenti e modifiche inevitabili, tra cui il fatto che Plogojowitz fosse apparso ai moribondi sempre e solo di notte, o il fatto che li avesse strangolati e succhiato loro il sangue, letteralmente una delle fonti di seconda mano: «com’è tipico di ogni vampiro jugoslavo». 

La cosa interessante è che quel fatto che in Fromann aveva destato, sembrerebbe, grande meraviglia, e cioè che le labbra del morto presentassero tracce di sangue, smise di meravigliare i narratori successivi e divenne un fatto scontato e quasi ovvio. Un tratto, potremmo dire, distintivo.

Il parallelo vampiro/succhiatore di sangue era dunque ormai compiuto.

Storie successive: la vicenda di Arnold Paole.

Già al tempo di Fromann in realtà la scienza sarebbe stata in grado di spiegare perché le labbra del cadavere Plogojowitz presentavano del sangue: la sua posizione prona e la necrosi delle cellule polmonari, forse accentuata dalla malattia che verosimilmente lo aveva ucciso, erano già di per loro ragioni sufficienti. Ma Fromann non era un medico e le rielaborazioni successive furono più interessate al dettaglio del sangue in sé che a spiegarne le motivazioni. Così quell’evento inizialmente casuale divenne il cardine attorno a cui ruotarono tutte le storie successive.

Una di queste, avvenuta l’anno dopo, riguarda un ex soldato serbo di nome Arnold Paole ed è ambientata a Medvegia, un villaggio situato a sud di Belgrado, a circa 230 km da quello di Plogojowitz. L’uomo, Arnold Paole, in vita aveva raccontato più volte di essere stato infastidito da un vampiro e di aver mangiato un po’ terra dalla sua tomba ed essersi imbratto del suo sangue per allontanarlo, tanto che, quando nel 1726 morì per una caduta accidentale, molti pensarono che fosse diventato un vampiro a sua volta.

Al suo decesso seguirono quattro morti misteriose e a quaranta giorni dopo di decise di disseppellirlo: il suo corpo fu trovato integro, gli occhi, la bocca, il naso e le orecchie gonfie di sangue e il sudario che lo avvolgeva intriso di sangue a sua volta; unghie e piedi erano cresciuti anche dopo la morte e quando i compaesani andarono per trafiggerlo, secondo i racconti, Paole avrebbe emesso un gemito per poi sanguinare copiosamente.

I redattori che narrarono la storia a distanza di più di vent’anni descrissero l’evento con dovizia di dettagli posticci, aggiungendo una truculenta decapitazione post-mortem prima della canonica combustione. Per questo, nel cercare di capire il seguito, ci baseremo, come al solito, su una fonte di prima mano, scritta nel 1732 da un chirurgo austriaco mandato, come Fromann, ad indagare sul posto.

A cinque anni dall’incenerimento di Paole, nel villaggio di Medvegia si registrarono 17 morti sospette in tre mesi. La commissione austriaca fece dissotterrare e analizzare i corpi, 12 dei quali furono trovati in eccellente stato di conservazione e solo 5 regolarmente decomposti. È possibile che il clima secco e freddo, la relativa vicinanza tra la sepoltura e l’esumazione e la morte improvvisa avessero rallentato i processi di decomposizione, ma comunque i medici decisero di far decapitare e incenerire tutti i corpi sospetti.

Probabilmente fu fatto per assecondare la paura della gente, ma da questo e da ulteriori eventi successivi conseguì che la paura dei vanpir, ormai conosciuti così anche fuori dall’Impero Austriaco, dilagò in tutta Europa come un’epidemia.

La controversia sui vampiri.

Per oltre vent’anni il fenomeno infuriò: decine di tombe furono profanate e i cadaveri dati alle fiamme, letterati e religiosi cominciarono, chi per una ragione, chi per un’altra, a studiare il fenomeno; si pubblicarono libri e la febbre del vampiro appassionò e sconvolse per anni quasi un’intera generazione. Il tutto fu aggravato dalle epidemie rurali, di certo non nuove, che tuttavia mischiavano l’insorgere delle malattie con una presunta origine vampiresca. Ovunque nei villaggi i corpi sospetti venivano disseppelliti ed impalati e nonostante gli studiosi più accorti continuassero ad insistere che i vampiri non esistevano, le superstizioni aumentarono

Don Augustin Calmet, un rispettato teologo francese, scrisse nel 1746 un esauriente saggio sull’argomento e moltissimi furono i lettori che lo credettero una testimonianza attendibile sull’esistenza dei vampiri. Tra loro c’era Voltaire, che nel suo Dizionario filosofico, pubblicato nel 1764, scrisse in proposito: «cadaveri che escono ogni notte dalle loro tombe per succhiare il sangue dei vivi […] e poi tornano nei loro cimiteri. Le persone a cui succhiarono il sangue si indebolivano […] mentre la loro carnagione si faceva rosea […] Fu in Polonia, Ungheria, Slesia, Moravia, Austria e nella Lorena.»

La cosa che oggi fa sorridere è che Don Augustin Calmet non doveva essere esattamente uno studioso attendibile: i suoi testi erano basati perlopiù su traduzioni e rimaneggiamenti di resoconti altrui, come per esempio quello di Fromann. Fu proprio Calmet infatti ad aggiungere alla storia di Plogojowitz alcuni dei dettagli più truculenti e macabri che invece mancavano nell’originale austriaco. 

Ad ogni modo fu solo grazie all’intervento dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria che le acque cominciarono a calmarsi: salita al trono nel 1740 e decisa a porre un freno alla controversia, l’imperatrice affidò al proprio medico personale, Gerard van Swieten, il compito di investigare la questione e ne venne fuori un saggio che spiegava in modo scientifico le credenze dei vampiri, bollandole come frutto di barbarie ed ignoranza. 

Così, qualche anno dopo, l’Imperatrice approvò una legge che proibiva di riaprire le tombe e di profanare i cadaveri, ma non bastò a fermare l’interesse sull’argomento. Il mito sopravvisse, nutrito di nuova linfa dal fervore romantico delle generazioni successive e poco più di un secolo dopo fu portato grandemente alla ribalta dalla letteratura, col Dracula di Bram Stoker, e poi ancora dal cinema. I tempi erano cambiati, ma evidentemente il fascino del vampiro era rimasto, come i corpi nelle tombe, intatto.


Fonti:

R. Agazzi, Il mito del vampiro in Europa.

T. Braccini, Prima di Dracula. Archeologia del vampiro. 

E. Petoia, Vampiri e lupi mannari.   

https://it.wikipedia.org/wiki/Vampiro#Origini_delle_credenze_sui_vampiri

https://en.wikipedia.org/wiki/Petar_Blagojevi%C4%87

https://it.wikipedia.org/wiki/Peter_Plogojowitz

https://en.wikipedia.org/wiki/Arnold_Paole

https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27Ungheria#L’Ungheria_asburgica

https://it.wikipedia.org/wiki/Regno_d%27Ungheria_(1538-1867)#Dall’Impero_ottomano_all’Impero_austriaco

https://it.wikipedia.org/wiki/Impero_ottomano

https://it.wikipedia.org/wiki/Maria_Teresa_d%27Austria#Ascesa_al_trono

https://en.wikipedia.org/wiki/Gerard_van_Swieten

Libri consigliati:

T. Braccini, Prima di Dracula. Archeologia del vampiro.

Ventinove anni e un nome insolito. Ho cominciato a scrivere storie poco più tardi di quando ho cominciato ad ascoltarle, prima da mia madre, poi da mia nonna, poi da chiunque ne avesse una da raccontare.

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