Età Moderna

Triste verità sulla colonna infame: chi erano davvero gli untori

Questa storia inizia in una Milano piovigginosa e buia, poco prima dell’alba, quando una donna, Caterina Rosa, si affaccia per caso ad una finestra e scorge in strada un uomo avvolto in una cappa nera, col cappello sugli occhi e un taccuino in mano. Sopra questo, affermerà lei in seguito, l’uomo pare scrivere e, procedendo rasente i muri, fiora le case una dietro l’altra.

È «l’untore» della peste, l’uomo che nel 21 giugno 1630 si trovava sciaguratamente a passare, con la pioggia, sotto i cordoli dei tetti di Milano.

Il primo a parlare della Colonna Infame fu Alessandro Manzoni. Scommetto che lo conoscete, perché pure contro voglia qualcuno vi avrà obbligato a leggere dei suoi Renzo e Lucia. E se il nome “colonna infame” non vi suona nuovo, è probabilmente per la stessa ragione. La Storia della colonna infame doveva comparire nella prima versione de I promessi sposi, ma la sua lunghezza e la sua complessità costrinsero Manzoni a pubblicarla in un libro a sé.

Ma che cos’era la “colonna infame”? E perché si chiamava così?

Si trattava di un monumento eretto a Milano nel 1630 per ricordare, come un marchio d’infamia, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora: i presunti untori della peste, considerati colpevoli di aver infettato la città, al punto da provocare le morte di circa 60.000 persone. In quell’anno Milano si trovava ad affrontare una delle più gravi epidemie di peste della sua storia: la così detta peste manzoniana, che colpì soprattutto le regioni del nord Italia, uccidendo, si calcola, quasi la metà della popolazione del tempo.

In un clima di terrore, aggravato dalle superstizioni popolari, i due uomini furono accusati di ungere le case con oli venefici e diffondere così la malattia. La situazione era al collasso e nel furore generale, le autorità misero in piedi un processo sommario, servendosi di metodi mostruosi per affermare una verità sbagliata. E fieri del loro operato, ne rimarcarono il ricordo, erigendo un monumento per i posteri, che rimase in piedi fino al 1778.

Una serie di assurdi eventi.

La vicenda iniziò la mattina del 21 giugno, quando Caterina Rosa, affacciata alla sua finestra, scorse Guglielmo Piazza strisciare lungo i muri delle case. L’uomo aveva con sé un quaderno, una penna e quello che alla donna parve un barattolo, evidentemente il contenitore di qualche liquido mortifero. Continuando ad osservarlo, Caterina vide Guglielmo svoltare l’angolo e qui salutare Gian Giacomo Mora, il barbiere del quartiere. I due in realtà neanche si conoscevano, se non di vista. Ma l’incontro fu sufficiente ad impensierire la donna, che subito si diede un gran daffare per diffondere la voce a tutto il vicinato: quell’uomo non poteva che essere l’untore della peste.

Bastò davvero pochissimo perché la notizia giungesse al capitano di giustizia e in breve tempo si risalì all’identità di quell’uomo misterioso. Il suo nome era Guglielmo Piazza, commissario della Sanità pubblica. Quel mattino stava più probabilmente segnando su un quaderno quali fossero le case degli ammalati. Aveva effettivamente in mano una pena e, forse, un calamaio. Solo più tardi sarebbe venuto fuori che quel suo accostarsi alle mura non era che un gesto banale, dovuto quasi con certezza al fatto che quel giorno pioveva forte.

La situazione era però già precipitata e le ricerche portarono a prove inconfutabili: le case e le porte parvero agli inquirenti effettivamente unte. Dirà poi Manzoni che con molta probabilità si trattava di vernice fresca. Ma i giudici, decisi a condannare con rapidità quasi eroica i colpevoli, indicano questa come prova sufficiente a mettere in atto il processo. Piazza fu interrogato e sottoposto a tortura (che era una prassi comune al tempo, ma non in fase preliminare).

Lo spogliarono, lo purgarono e rasarono, secondo l’idea diffusa che il demonio potesse nascondere la verità negli intestini e fra i capelli. Successivamente, poiché continuava a resistere, gli vennero spezzati i polsi e slogate le spalle, e solo allora dopo atroci tormenti, sfinito e delirante, Piazza confessò ciò che tutti si aspettano: era lui l’untore e Mora, il barbiere, era suo complice.

A questo punto, le ricerche proseguirono a casa di Mora. Qui venne rinvenuto un catino contenente uno strano unguento giallo. Come scrive Manzoni, si trattava di una «caldara di rame» con «dell’acqua torbida» e «una materia viscosa gialla e bianca, la quale, gettata al muro, si attaccava» (Manzoni).

Unguento e cenere.

In realtà si trattava di ranno, un composto di acqua bollente e cenere che veniva usato soprattutto dalle persone povere per lavare i panni. Durante l’estate, e ricordiamo siamo a giugno, era un fenomeno del tutto normale che, separandosi dall’acqua, il ranno rilasciasse una posa giallastra. E se anche questo, in un’altra occasione, non avrebbe destato sospetti, in quel momento di ansia collettiva divenne la prova regina che i due uomini era colpevoli.

Fu proprio questa scoperta concludere il processo. Il 27 luglio 1630 Piazza e Mora furono condannati a morte e giustiziati con il supplizio della ruota, un metodo atroce di origine medievale, che prevedeva che i condannati venissero legati per polsi e caviglie ad una grande ruota, sottoposti alla rottura degli arti e poi fatti girare. Era una morte lenta e dolorosissima.

La casa-bottega di Mora viene distrutta e al suo posto, come monito, si eresse il monumento con i nomi dei due colpevoli: appunto, la “colonna infame”.

Perché gli untori?

Quella di Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Morra non fu la prima e probabilmente neanche l’ultima vicenda di questo genere. La credenza che le malattie si potessero spargere volontariamente attraverso unguenti è infatti molto antica.

Già nella Roma repubblicana circolava la voce che la pestilenza del V secolo a. C. fosse nata dalla congiura di alcune matrone, le quali avrebbero diffuso il morbo attraverso dei veleni (notizia riportata da Livio e citata da Pietro Verri in Osservazioni sulla tortura). Storicamente, i romani reputavano infatti il veleno un’arma tipicamente femminile, dato che le donne non sapevano e non potevano maneggiare spade o lance.

Che poi qualcuno potesse spargere malattie attraverso l’unzione divenne una credenza molto diffusa nel XVII secolo, soprattutto durate l’epidemia di colera. Nel periodo medievale, infatti, la peste era considerata una punizione divina, che non necessitava di strumenti umani: l’ansia e la paura di quel tempo, in particolare durante la peste del Trecento, si espressero quindi con la ricerca di colpevoli per giustificare la rabbia celeste, ma non di untori. Solo con il Seicento cominciò a circolare il sospetto che le malattie potessero essere “manufatte”, e cioè derivate dalla volontà di un qualcuno tangibile e terreno: un potere cospirativo o un gruppo delinquenziale che voleva il male della società. E così, forse per effetto delle antiche credenze, si giunse a pensare che la peste, come il colera, potesse essere diffusa attraverso l’unzione delle porte.


Fonti:

A. Manzoni, Storia della colonna infame.

L. Sciascia, nota a Storia della colonna infame, Sellerio Editore, 1981.

https://it.wikipedia.org/wiki/Colonna_infame_(Milano)

http://www.treccani.it/vocabolario/ranno/

https://it.wikipedia.org/wiki/Supplizio_della_ruota

Ventinove anni e un nome insolito. Ho cominciato a scrivere storie poco più tardi di quando ho cominciato ad ascoltarle, prima da mia madre, poi da mia nonna, poi da chiunque ne avesse una da raccontare.

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