St’anno “la live s’arcoije” in anticipo
Primo giorno di raccolta dell’ulivo, data 17 ottobre. Mai raccolto l’ulivo prima dell’inizio di novembre. Lo Zio, capitano indiscusso di ogni nuova spedizione agricola, ritorna sulle decisioni di una vita e decreta che quest’anno non c’è altro da fare:
«La live s’arcoje in anticipo».
Galeotta fu la mosca.
La raccolta inizia sul tardi, verso le nove del mattino. Non c’è più la forza di un tempo di svegliarsi all’alba e sorprendere con gli abbacchiatori in mano il sole che si affaccia dalle colline. Oggi si scende in campagna quando il mattino è già chiaro.
È la prima raccolta dell’ulivo senza la nonna. Un altro pezzo del puzzle che se ne va.
Nella casa in campagna era sempre lei ad accendere il fuoco mentre tutti noi vagavamo insonnoliti e spaesati da una parte all’altra alla ricerca di un vecchio paio di scarpe, un maglione, un avanzo di pantalone rattoppato rinvenuto dentro qualche armadio. Per raccogliere l’ulivo non si può prescindere dal panno vecchio, collezione autunno-inverno per combattere il freddo. Ciò che indossi sotto le olive non può vedere la luce da un’altra parte.
La nonna metteva il suo atavico maglioncino di lana rosa, con i bottoncini argentati e un paio di buchi molto alla moda. Non poteva mancare il “fazzolo” sopra la testa, e un grembiulone quadrato, con una grossa tasca, allacciato direttamente sotto il petto.
Oggi il fuoco resta spento ancora un po’ perché senza la nonna che cucina in casa non rimane nessuno. Le generazioni si danno il cambio, e a raccogliere l’ulivo siamo ormai per metà ragazzi.
Fa ancora caldo perché siamo appena alla metà di ottobre, e di ulivo sugli alberi ce n’è parecchio. Peccato che non sia un granché. L’apparente lucidezza esterna nasconde un microscopico buco che è l’ingresso – o meglio l’uscita – di una galleria vuota, avanzo del vermiciattolo (inquilino poco gradito) che ha mangiato tutto quel che c’era da mangiare. È la “mosca” dell’ulivo, che al termine del ciclo si trasforma e se ne va, lasciando dietro di sé un tappeto di olive cadute e mangiucchiate, e troppa amarezza nei contadini che hanno aspettato tutta l’estate per il loro “oro giallo”.
«Ha štatә lu freddә.»
«È stato il freddo» spiega lo zio, rimarcando con decisione il ricordo sempre vivo de “la bella live dell’annә passatә”. Quando d’estate fa caldo, argomenta, la «livә ve bbonә»; ma quando come quest’anno ad agosto piove e le temperature calano arriva la mosca e si fa gli affari suoi.
Non c’è scampo per le olive sui rami, e soprattutto non ce n’è per quelle già cadute.
Il passo successivo alla galleria di distruzione che si forma attorno al nocciolo è infatti il distaccamento e la tragica caduta. Per questo i tempi si sono accelerati così tanto. Chi vuole raccogliere, deve farlo nel più breve tempo possibile, in modo da salvare almeno quel che è rimasto sulle piante.
Chi raccoglie e chi non raccoglie.
C’è anche chi di fronte all’ineluttabilità del fato ha gettato la spugna e ha detto:
«Wuannә la livә ‘nzә cojә» – «Quest’anno l’ulivo non si raccoglie».
In molti hanno deciso che è meglio evitare un olio cattivo. Con le olive rovinate il sapore non sarebbe molto buono e non vale la pena di lavorare giorni per un olio che non puoi mangiare.
«E poi, finché lo mangi adesso è discreto, ma poi quando arriva la fine… l’olio non lo puoi mangiare più».
Qualcuno ha ancora avanzi dello scorso anno che si farà bastare per quel che può.
Gli inossidabili dell’ulivo.
Per quel che ci riguarda, non siamo molto propensi a demordere prima ancora di cominciare. La speranza sempre viva dell’uomo di campagna ci guida verso i terreni, armati di reti, trattori e “bandoni”. E anche con la prospettiva sempre incombente, come una nuvoletta di Fantozzi sulle nostre teste, che tutto lavoro possa essere vano, ci apprestiamo ad abbacchiare l’abbacchiabile e a spandere i pannoni. Ragioniamo tra di noi e ci diciamo: «Per il momento ne raccogliamo un po’, poi lo portiamo a macinare e si vede».
L’idea che serpeggia silenziosa, quasi segreta e da non pronunciare a voce alta, è che il «si vede» porterà risultati discreti, contro ogni drammatica previsione.
E persino il tempo che timidamente ci assiste – tenta una spiovazzata, poi ci ripensa e fa uscire un goccio di sole – ci sprona a continuare. Non possono mancare i momenti di stasi e timore celato, come quando uno degli abbacchiatori si arrende e smette di funzionare; o come quando – recuperato un terzo e un quarto abbacchiatore di fortuna, chiesto in prestito ad un parente – è il momento del trattore, che improvvisamente cede, e buonanotte al secchio.
Mai un annata senza intoppi, e senza almeno un attimo di cedimento da parte di uno dei motori, che borbotta e puntualmente stramazza.
«Ma non lo sai che ‘sto trattore è più vecchio di te?» osserva con saggezza mio fratello, intenditore di macchine e motori. Si tratta in effetti di una macchina degli anni ’50, miracolosamente ancora in piedi per via dell’innumerevole serie di aggiustamenti artigianali che ha subito nel corso della sua vita. Un pezzo unico, qualcosa di introvabile fuori da questi confini.
Così arriva la sera, e il tempo passa a ritmo dei pannoni che si srotolano e delle olive che saltellano, volando in ogni dove.
Il trattore, nuovamente rinvigorito, riparte alla volta del frantoio.
È notte fonda quando le olive rientrano dalla porta di casa e sono diventate olio. Un bel colore, un bel verde opaco. Siamo rimasti tutti ad aspettare per un assaggio.
Verde, leggero, ricco di proteine.
E va be’, sarà anche che le olive quest’anno non erano il massimo, ma l’olio in conclusione è venuto buono. L’assaggio è positivo. Non pizzica, non è forte e si può “bere”. Anche con qualche vermicello in più in fin dei conti ce lo facciamo andare bene.
Le cose, soprattutto in campagna, vanno prese con filosofia, sennò c’è poco da star contenti. E se è vero che la nuova frontiera alimentare è quella che è – non fate quelle facce, la frontiera insettivora ormai è nota a tutti – tanto vale accontentarsi di un po’ di proteine non previste. Il verme sceglie sempre per primo, e almeno sceglie le olive migliori.