Il matrimonio nell’Antica Roma
Il matrimonio nel mondo antico non era basato sull’amore: si trattava di un dovere civile, un obbligo stabilito a priori tra due padri, al quale i rispettivi figli, lo sposo e la sposa, non potevano opporsi. A Roma non ci si sposava per il desiderio di una vita insieme o per mettere su una famiglia: spesso gli sposi erano due sconosciuti, che ad un certo punto della loro esistenza si ritrovavano a vivere insieme e a dormire nello stesso letto.
La loro unione aveva un unico semplice scopo: procreare. Non c’era nulla di romantico o sentimentale. Le stesse ragioni con cui si combinavano le nozze erano di pura convenienza: i matrimoni servivano a cementare alleanze politiche o ad accrescere il potere di una certa famiglia. Ci si sposava poi sempre tra pari e mai con persone appartenenti ad altre classi sociali: dunque i ricchi con i ricchi, i popolani con i popolani. Solo i cittadini romani potevano sposarsi: gli schiavi e gli stranieri, che non erano cittadini, non godevano di questo diritto.
Alla luce di ciò, è facile capire che il matrimonio per i due sposi fosse difficilmente un giorno felice. Soprattutto per le ragazze doveva trattarsi di un momento anzi piuttosto traumatico: un’adolescente, soprattutto se di famiglia aristocratica, che per tutta la vita aveva vissuto quasi da reclusa nella casa dei genitori e che non aveva avuto esperienze di alcun tipo, improvvisamente si trovava catapultata in un mondo nuovo: la dimora di un uomo sconosciuto, spesso molto più grande di lei, dove avrebbe trascorso il resto della propria esistenza insieme ad una famiglia che non aveva scelto.
Un fattore fondamentale del matrimonio romano era infatti il cambio di “residenza” della donna, che dalla casa paterna si spostava a vivere in quella dello sposo, come una qualsiasi altra proprietà. Moltissimi erano i riti che accompagnavano questo giorno: la loro buona riuscita era sinonimo del favore degli dèi ed era indispensabile perché ogni unione cominciasse nel modo giusto.
Il giorno delle nozze a Roma.
Tanto per cominciare era fondamentale la scelta del giorno. Non tutti i periodi dell’anno andavano bene: doveva essere un momento di buon auspicio. Il periodo preferito era la seconda metà di giugno. Non ci si sposava in giorni “infausti”, nel mese di maggio ad esempio, o in giorni che avevano sancito gravi sconfitte per la Res Pubblica romana. Da evitare erano anche le festività dedicate alle divinità e al culto dei defunti.
La cerimonia durava una giornata, dall’alba al tramonto, e si svolgeva sempre a casa della sposa.
La sera precedente, la ragazza deponeva i suoi abiti di bambina e si spogliava di tutto ciò che aveva caratterizzato la sua vita fino ad allora: le bambole, i giocattoli, i reggiseni e soprattutto la bulla: una collana particolare che a Roma indossavano soltanto i bambini. Tutti questi oggetti sarebbero rimasti nella casa paterna e il loro abbandono avrebbe sancito il momento di passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Per la ragazza il matrimonio significava proprio questo: l’ingresso nel mondo dei grandi.
A che età si sposava una donna? In genere tra i 12 e i 14 anni se era aristocratica, tra i 16 e i 18 se proveniva da classi più umili.
Prima di coricarsi, la futura sposa indossava la tunica recta, che era l’abito di nozze: una lunga tunica bianca simbolo di verginità. Si trattava di un indumento molto semplice, stretto in vita con un nodo particolare, il così detto nodus Herculeus, che si posizionava sopra lo stomaco e si credeva portasse fortuna. Avrebbe protetto la sposa dal malocchio e le avrebbe portato fecondità, perché secondo la tradizione Ercole aveva generato ben settanta figli. La ragazza si raccoglieva i capelli in una cuffia arancione, il luteum, e così andava a dormire.
Al mattino l’attendeva un complesso rito di preparazione. I suoi capelli venivano spartiti in sei trecce, tre su ogni lato del capo, che le schiave dividevano usando la punta di una lancia chiamata hasta caelibaris. Il motivo non è chiaro: questo gesto potrebbe simboleggiare la potestà del marito su di lei o la nascita di figli robusti, o trattarsi di un antico rito di allontanamento degli spiriti maligni nascosti tra i capelli. Le trecce venivano avvolte sul capo in forma di crocchia e decorate con una corona di fiori che la sposa stessa aveva raccolto ed intrecciato: rami di alloro, ulivo e mirto, che i romani consideravano magici, ma anche fiori d’arancio e melograno, spighe di grano e gigli. Anche questa corona funzionava come un amuleto contro le forze del male.
Truccata e profumata, la sposa veniva infine velata con il flammeum, un telo rosso-arancione dal colore intenso e dalla trama leggera, che le ricadeva sul capo e che l’avrebbe coperta fino al momento del matrimonio.
Non a caso il termine «nozze» viene dal latino “nubere”, che vuol dire proprio “coprire”.
La cerimonia di preparazione dello sposo era molto meno complessa: lo sposo in genere era un uomo adulto, che già da anni aveva abbandonato gli abiti di ragazzo. Il matrimonio non era per lui un momento di passaggio dalla giovinezza all’età adulta; la cultura romana prevedeva infatti per i maschi riti di tutt’altro genere. Anche lo sposo vestiva lui una tunica bianca molto semplice, sopra la quale portava la toga virilis e ai piedi un paio di stivaletti di cuoio.
Tutta la casa veniva addobbata per l’evento: si usavano festoni di rami di alloro ed edera, tralci di mirto, caro a Venere, fiaccole e lucerne. Le pareti venivano coperte con drappi giallo-arancioni e nell’atrio venivano esposte le maschere di cera degli antenati più illustri. Tutta la casa era avvolta dall’odore dell’incenso che bruciava.
Gli invitati si presentavano sfoggiando abiti colorati ed eleganti, le donne con tutti i loro gioielli più preziosi ben in vista. Ma era l’arrivo della sposa a segnare l’inizio delle celebrazioni. Dopo il primo rito propiziatorio, che era stato volto all’alba, quando veniva osservato e interpretato il volo degli uccelli, si firmava come prima cosa il contratto matrimoniale, alla presenza di dieci testimoni tra amici e parenti. Il contratto era una formalità giuridica: stabiliva le condizioni dell’unione, compresa la dote che la ragazza portava con sé e che, in caso di divorzio causato dal marito, avrebbe riavuto indietro.
Un grosso animale veniva allora offerto agli dèi e sgozzato alla vista di tutti mentre venivano pronunciate frasi di rito.
A quel punto, la pronuba, una donna anziana, sposata una sola volta nella sua vita come segno di buon auspicio, accompagnava gli sposi presso un piccolo altare di marmo decorato con ghirlande di fiori. Lì, davanti ad un fuoco sacro, la ragazza si toglieva il velo e lasciava che la pronuba posasse la sua mano destra su quella dello sposo. L’unione delle due mani sugellava il patto. Niente baci, niente scambio d’anelli.
Seguiva allora il banchetto, un pasto ricco e vario, che sarebbe andato avanti per molte ore.
Il ratto della sposa.
Il giorno del matrimonio era un giorno lieto: si parlava solo argomenti allegri e, nelle case degli aristocratici, poeti e acrobati intrattenevano gli invitati. Ma con l’imbrunire per la sposa si apprestava il momento del distacco definitivo. Stava per iniziare il finto rito del “rapimento”.
Gli amici dello sposo strappavano la ragazza dall’abbraccio della madre e in un corteo festoso la scortavano verso la sua nuova casa, dove il marito, scomparso dalla cerimonia, la stava già aspettando. Si pensa che il rito del “rapimento” servisse a ricordare il ratto delle sabine: la sposa, portata per mano da due fanciulli e guidata da un terzo ragazzo che, con una fiaccola d’abete, rischiarava il buio delle strade, arrivava così a casa dello sposo. Nel frattempo si univano amici, parenti, curiosi, scrocconi, persino autorità, se gli sposi erano persone importanti.
Anche la casa dello sposo era stata addobbata e l’uomo veniva ad accogliere la sposa sulla porta. Prima di entrare, lei doveva ungere gli stipiti dell’ingresso, inizialmente con grasso di lupo, poi sostituito da olio d’oliva, come per allontanare gli spiriti maligni. Poi lui le rivolgeva una domanda: «Come ti chiami?» e la sposa rispondeva una frase dal significato ancora ignoto: «Ubi Gaius, ego Gaia», e cioè «Dove tu sei Gaio, io sarò Gaia».
Era il concludersi della cerimonia nuziale. La sposa poteva varcare la soglia della nuova dimora, ma bisognava stare molto attenti che non inciampasse, altrimenti sarebbe stato un pessimo segno. Così i tre fanciulli che l’avevano accompagnata fin lì, la sollevavano di peso e la portavano dentro.
Nasce da qui l’usanza dello sposo di prendere in braccio la sposa sulla porta di casa.
La prima notte di nozze.
Con l’arrivo a casa di lui, il finto rapimento aveva termine. La sposa, che secondo la tradizione doveva arrivare vergine al matrimonio, stava per affrontare la sua prima notte di nozze.
Era la pronuba, la donna anziana che l’aveva accompagnata sull’altare, a prepararla per ciò che l’attendeva: a lei spettava il compito di preparare il letto nuziale, che secondo la tradizione andava cosparso di fiori di croco e polvere di zafferano, considerato afrodisiaco, oltre che il compito di esortare e tranquillizzare la ragazza prima di lasciarla sola con il nuovo marito. Nel corso di questa operazione, la pronuba aveva anche un altro importante ruolo: scioglierle i capelli, eliminando ogni ornamento contundente, come aghi, fermagli, gioielli pesanti.
Perché?
Molto semplice: la sposa non doveva avere nulla a disposizione per difendersi dall’uomo durante il rapporto. Dopo aver svolto alcuni ultimi riti ben auguranti, come invocare il genius, una sorta di angelo custode maschile, chiedendo fecondità, e toccare gli attributi portafortuna del dio Priapo, lo sposo e la sposa veniva lasciati soli. Quello che seguiva era difficilmente un atto d’amore, molto spesso anzi si trattava di una vera e propria violenza.
Lo confermerebbe anche il fatto che tra le divinità invocate poco prima c’era Prema, che doveva far sì che lei non si dibattesse né divincolasse troppo durante il rapporto.
Il matrimonio come scambio di proprietà.
Ben lontano dal matrimonio d’amore che siamo abituati a pensare, il matrimonio romano non era che una particolare compravendita, il cui oggetto di scambio era la donna. Tutto si basava infatti sulla sua proprietà, che da un uomo, il padre, passava ad un altro uomo, il marito. La cosa curiosa è che tutto questo si è conservato nei nostri modi di dire. La potestà sulla donna era detta manus e chiedere dunque ad un padre la mano della propria figlia significava proprio chiederne la proprietà.
Tre forme di matrimonio romano.
A Roma esistevano più modi di contrarre matrimonio, alcuni dei quali caddero in disuso con la fine della Res Pubblica. La forma più antica era detta confarreatio e prendeva il nome da una tradizionale focaccia di farro, il farreum, che gli sposi assaggiavano durante le nozze, quasi come una sorta di eucarestia. Il farreum rimanente si offriva a Giove e così veniva sancito il passaggio di proprietà della donna.
Forse anche a causa dell’affluire di grandi quantità di grano a Roma con la conquista della Sicilia prima e dell’Africa poi, la confarreatio scomparve. Si conservò invece un secondo rituale che era detto coemptio e che derivava da un’antica forma di compravendita, durante la quale si acquistava una merce pesando su una bilancia un certo quantitativo di rame o bronzo. La stessa cosa si faceva in occasione del matrimonio, con la differenza che la merce acquistata era la sposa.
Una terza forma di matrimonio più semplice era invece detta usus e si basava sull’usucapione della donna, che se rimaneva in casa di un uomo per un intero anno, poteva automaticamente essere considerata sua moglie, anche indipendentemente dalla consumazione del matrimonio.
Non fatevi ingannare dalla somiglianza di questo “atto” con la nostra convivenza: era sempre l’uomo ad avere il coltello dalla parte del manico e poteva decidere in qualunque momento di interrompere l’unione, soprattutto se scopriva che lei non era fertile e che non gli avrebbe dato i figli che desiderava.
Il matrimonio sine manu e le concubine.
A partire dal Principato, anche il matrimonio romano finì per modernizzarsi. Si diffuse infatti la consuetudine per una donna di sposarsi sine manu, ovvero senza passaggio di proprietà dal padre al marito. La sua potestà restava al padre anche dopo l’unione e nel momento in cui la donna acquisiva indipendenza, ad esempio in seguito alla morte del padre, diventava proprietaria di sé stessa e poteva vivere la propria vita coniugale con qualche libertà in più.
Fu così che il matrimonio imperiale ad un certo punto cominciò a basarsi essenzialmente sulla volontà di due persone di vivere assieme. Perché un uomo e una donna fossero considerati sposati bastavano quattro condizioni: che si comportassero in pubblico come moglie e marito, che vivessero sotto lo stesso tetto e che l’uomo affermasse l’unione in occasione del censimento. Ultimo, ma non meno importante vincolo, la donna doveva possedere una dote. Senza dote sarebbe stata soltanto una concubina. A Roma molto spesso gli uomini vivevano con più donne, anche se la legge riconosceva soltanto il matrimonio monogamico, e cioè con una sola moglie. Ciò non impediva comunque all’uomo di avere delle schiave o delle concubine, donne di più bassa estrazione sociale, con le quali intrecciava rapporti basati senz’altro sul proprio piacere, ma che con ogni probabilità e con tutte le dovute differenze culturali, potevano anche tradursi in vere storie d’amore.
Fonti:
A. Angela, Sesso e amore nell’Antica Roma.
https://www.treccani.it/enciclopedia/matrimonio_%28Enciclopedia-Italiana%29/