Gli ospedali nel medioevo: curiosità e stranezze sui luoghi di cura del passato
Luoghi che nei nostri ricordi hanno l’odore del disinfettante e il suono ovattato di pantofole e ruote di gomma, nel tempo di questa storia conservano caratteristiche del tutto diverse. È appena il tramonto, e in una grande stanza che riecheggia di lamenti s’intravedono a stento i volti degli ammalati. L’odore è quello acre dei pavimenti sporchi, della pelle sudata e dei liquidi corporei, di lenzuola logore. Non c’è il linoleum a terra, né monitor che lampeggiano. Questo è un ospedale del passato, e molte cose sono diverse da ciò che conosciamo.
A volte diamo per scontato certe conquiste del nostro tempo, come se queste fossero sempre esistite. Ma non è così. Nel medioevo, la sanità come la intendiamo noi oggi sarebbe stata impossibile persino da immaginare. A quel tempo, e almeno fino al XII secolo, non esistevano ospedali in senso moderno, non c’erano scuole che formassero medici e l’idea stessa di medicina era molto lontana dalla nostra.
Cosa sarebbe successo se ci fossimo ammalati nel medioevo? A quali generi di cure avremmo avuto diritto? E dove, soprattutto, avremmo ricevuto assistenza?
L’idea di un luogo deputato alla cura della malattia è in realtà una conquista piuttosto moderna. Nell’Antica Grecia già esistevano santuari o luoghi di culto dedicati alla salute, dove i malati potevano recarsi a chiedere una guarigione. Tuttavia non erano ambienti di cura in senso stretto.
Nel medioevo con l’emergere del sentimento cristiano, inteso anche come aiuto spirituale e materiale del prossimo, soprattutto se bisognoso, cominciò a diffondersi un’esigenza diversa: quella di erigere strutture deputate all’aiuto e alla protezione dei più deboli. Poteva trattarsi di indigenti, di ammalati, di vecchi o orfani: almeno al principio non vi fu distinzione tra le diverse categorie di bisognosi, perché tutte, di fronte alla carità cristiana, avevano diritto allo stesso tipo di assistenza.
Gli ospedali nei monasteri.
Per tutto l’Alto Medioevo i soli luoghi di cura possibile furono i monasteri. L’assistenza ai bisognosi era considerata, da monaci e suore, un atto di carità e per questo i conventi erano aperti a tutti e fornivano un’assistenza gratuita: nutrivano i poveri, accoglievano i bambini, si occupavano degli anziani, soccorrevano i pellegrini e curavano gli ammalati. Alcuni di questi avevano zone preposte all’assistenza dei lebbrosi e quasi tutti possedevano una farmacoteca, il luogo di raccolta dei medicamenti, che suore e monaci ricavano dalle erbe officinali.
Tutta la medicina monastica era basata su una combinazione di due fattori: la “speranza della guarigione”, che dipendeva unicamente dalla misericordia divina, e l’azione dei “semplici”, le piante medicamentose, che venivano coltivate all’interno in orti appositi, separati dalle piante alimentari. I conventi erano ovunque piccole comunità autosufficienti ed ognuna di queste possedeva un proprio giardino dei semplici.
Quali piante avremmo trovato? E come i monaci le avrebbero impiegate nelle diverse cure?
L’orto dei semplici.
In questi orti non mancavano piante come la salvia, la menta, l’iperico; avremmo visto le rose, fiori simbolo della Vergine, e i gigli, emblemi di purezza; anche la calendula, la ruta, la celidonia e l’aloe; e poi il finocchio, la bardana, la camomilla, la malva e moltissime altre erbe curative. Ognuna di queste aveva (ed ha) proprietà benefiche specifiche e il loro uso poteva avvenire tramite l’applicazione diretta sulle ferite, o attraverso la creazione di cataplasmi. In molti casi i monaci ne ricavano unguenti, estraendo l’olio delle piante e mischiandolo con la cera d’api, fino a formare un blocco solido, quasi una saponetta, da sciogliere all’occorrenza. Si ricavavano anche oli e balsami, molto cari, che venivano conservati in preziosissime boccette di vetro. Alcune erbe potevano essere usate per ricavare decotti e infusi, utili anche questi ad alleviare certi tipi di sofferenze.
In generale l’uso delle erbe era antichissimo. Conosciuto da tempi immemori, diffuso anche nella medicina contadina, giunse ai monaci tramite gli scritti greco-romani, conservati proprio nei monasteri. Non fu infatti un caso che le conoscenze mediche, almeno in questa prima fase, rimasero un’esclusiva monastica: i conventi, con le loro biblioteche, furono al tempo l’unico possibile centro di conservazione della cultura, anche medica.
Successivamente furono proprio loro, monaci e suore, ad esemplare nuovi testi sulla medicina erboristica: preziosi volumi che racchiudevano conoscenze vecchie e nuove, e che potevano essere prestati da un convento all’altro, come avviene oggi con lo scambio interbibliotecario.
Gli ospedali nelle città.
Almeno fino al XII secolo l’idea dell’ospedale, seppur molto diversa dalla nostra, non si allontanò dai monasteri. Era un tempo in cui la gran parte della popolazione viveva nelle campagne e i monaci potevano permettersi di compiere brevi tragitti per dare assistenza anche fuori dalle mura conventuali. Ma le cose dopo l’Anno Mille, quando l’Europa fu attraversata da un imponente fenomeno di migrazione dalle campagne alle città.
L’aumento della popolazione urbana pose nuovi problemi alle autorità locali: l’assistenza, un tempo richiesta soprattutto nelle campagne, diventava ormai un problema cittadino. Con l’ampliarsi delle rotte commerciali via terra e con l’intensificarsi dei pellegrinaggi verso i luoghi sacri, divenne indispensabile la creazione di luoghi di cura anche all’interno delle città. Fu così che, per iniziativa di ricchi benefattori locali, nacquero i primi ospedali laici.
Si trattava perlopiù di strutture con funzioni generiche, molto lontane dalle specializzazioni attuali, ma con una precisa tendenza alla selezione dei meritevoli di assistenza. Gli ospedali cittadini, come quelli monastici, non erano dediti solamente alla guarigione degli ammalati: qui trovavano spazio pellegrini ed indigenti, orfani e bambini abbandonati. Era lo stato di necessità a stabilire la selezione, non la malattia.
Per questo l’ospedale medievale era inteso innanzitutto come luogo di ospitalità e veniva chiamato «ospitale», dal latino hospes, “ospite”, o «xenodochium», e cioè luogo di accoglienza dei forestieri.
Pur essendo indipendente dal controllo ecclesiastico, non mancava di simboli religiosi: era una sorta di casa «sotto la speciale protezione di Dio» (Leistikow) e sempre pieno della presenza guaritrice dello Spirito Santo. Probabilmente al principio aveva una struttura semplice, composta da edifici anche di piccole dimensioni, con scarsa igiene e totale assenza di privacy. Solo in un secondo momento, a partire dal Duecento, cominciarono a comparire sezioni distinte tra uomini e donne e padiglioni diverse per malati gravi, come quelli cronici, o contagiosi.
I malati dell’ospedale medievale.
Ma quali altre tipologie di ammalati avremmo trovato in uno di questi ospedali?
Probabilmente la categoria più diffusa era quella dei pellegrini: uomini e donne in viaggio verso luoghi lontani, che oltre all’assistenza trovavano negli ospitali un posto sicuro per passare la notte. Spostarsi nel medioevo significava attraversare a piedi lunghe distanze e superare ostacoli di ogni genere. Per questo molti ospitali, anche di piccole dimensioni, sorsero in prossimità delle strade più battute, dando assistenza come delle moderne stazioni di servizio.
La medicina del tempo era fortemente basata sulla volontà divina e questo portò molti ammalati ad intraprendere pellegrinaggi verso i santuari, con la speranza di ricevere una grazia o una guarigione. Città come Assisi, divenuta meta del pellegrinaggio francescano, furono tra le prime a dotarsi di ospedali di grandi dimensioni, proprio a causa del numero elevato di forestieri che ogni giorno ne calcavano le strade.
Ma pur numerosi, i pellegrini non erano i soli. In questi ospitali avremmo trovato orfani, bambini abbandonati, anziani e soprattutto poveri, che chiedevano pane e un posto per dormire. C’erano ospitali, come quelli della Siena tardomedievale, che ospitavano anche fanciulle sole, vedove e donne di malaffare che volevano redimersi.
Naturalmente non sarebbero mancati quelli che erano i reietti e gli esclusi dalla società: gli ammalati cronici contagiosi, come i tignosi e i lebbrosi, e con loro i paralitici e persino gli storpi. Alcune di queste persone non avevano altro posto dove vivere e in certi casi erano costrette all’isolamento. I lebbrosi più degli altri, considerati malati senza speranza alcuna, furono destinati a trascorrere negli ospitali gran parte della loro esistenza.
Come avveniva la cura negli ospedali cittadini?
Anche nelle città, come nei conventi, le cure erano basate anzitutto sull’assistenza. I medici non erano assunti: la gran parte di loro svolgeva la professione autonomamente e non per forza all’interno degli ospedali. Solo nel Trecento divenne una consuetudine per i medici la visita e la medicazione dei malati una o più volte nel corso della giornata. In alcuni casi c’erano chirurghi a disposizione in caso di necessità o speziali addetti alla preparazione e alla somministrazione di medicine. Le metodologie erano le stesse dei monasteri, basate soprattutto sulla teoria degli umori, quindi su diete e salassi, e sull’erboristeria.
Fonti:
A. Angela, Silvestro un medico tra i pellegrini di Assisi, Come eravamo, vol. XI.
http://www.treccani.it/enciclopedia/ospedale_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/
https://en.wikipedia.org/wiki/Medieval_medicine_of_Western_Europe#Monasteries
Un commento
Passarini Sergio José
Qualche anno addietro visitai San Quirico d’Orcia dove, in una casa medioevale sorgeva un ospedale. Chi ci faceva da guida ci racconto che l’ospedale divenne ricchissimo giacché i pellegrini (bisogna ricordare che il paese era sulla via Francigena) lasciavano spesso in custodia denaro e altri beni per paura dei briganti, il più famoso dei quali fu Ghigno di Tacco. Però spesso i pellegrini non tornavano più e i beni lasciati in custodia venivano incamerati dall’ospedale che li ti investiva in acquisto di terreni e case.