Novecento

La Guerra di Trincea: la vita al fronte e l’insensatezza della Prima Guerra Mondiale

Partirono in molti, animati da uno spirito di giusta rivalsa, da un senso di sopraffazione attesa e desiderata da tempo. Forse convinti che quella guerra fosse necessaria, inevitabile; forse convinti che sarebbe stata breve. Ma allo slancio iniziale si trasformò in dramma in poche settimane: nell’autunno del 1914 fu chiaro che quel conflitto, un conflitto nuovo, disastroso, fosse solo al primo atto. Cominciava così la Prima Guerra mondiale: una delle pagine più spaventose e incomprensibili della nostra storia recente.

Quando nell’estate del 1914 la Germania dichiarò guerra alla Francia, trasformando quello che all’inizio era sembrato un conflitto nazionale, limitato al solo Impero Austro-Ungarico, in una guerra europea, l’idea comune era che le operazioni sarebbero durate poco. Il governo tedesco intendeva infatti distruggere in poche settimane l’esercito francese, per poi dirigersi sul fronte orientale, dove l’Austria-Ungheria combatteva con la Russia, e dare manforte all’alleato austriaco per concludere in fretta la guerra. Ma era un progetto destinato a fallire: le forze congiunte dei francesi e degli inglesi riuscirono a fermare i tedeschi lungo il fronte occidentale e tuttavia non furono in grado di respingerli completamente. I due eserciti rimasero così bloccati per settimane, senza che lo scontro avanzasse in maniera sostanziale né da una parte né dall’altra. 

Stava iniziando un nuovo tipo di conflitto, molto più lungo, più lento e più logorante. Per sfuggire ai bombardamenti e all’artiglieria nemica, le truppe cominciarono a scavare fossati e gallerie dentro cui ripararsi e con il passare delle settimane questo sistema si consolidò, diventando sempre più elaborato e complesso. La trincea, che nasceva come riparo di fortuna, si stava trasformando in una fortificazione permeante: una struttura stabile, destinata a diventare il vero teatro della guerra.

La nascita delle trincee.

Diversamente da ciò che si potrebbe pensare, la “trincea” non nacque con la Grande Guerra: le fortificazioni erette per difesa sono uno strumento di guerra antichissimo, ma almeno fino all’introduzione della leva obbligatoria, avvenuta a partire dal XVIII secolo, fu difficile impiegare grandi reparti per difendere fronti estesi. Prima di questo momento infatti gli eserciti erano troppo piccoli e le battaglie avevano durate limitate. Fu con la Guerra di Secessione americana, dopo la metà dell’Ottocento, che le tecniche iniziarono a cambiare: si incrementarono le fortificazioni da campo, si introdussero nuove armi e gli ostacoli difensivi divennero sempre più importanti. 

Solo nel Novecento tuttavia, con l’introduzione di armi più potenti e con l’invenzione dell’artiglieria a colpi rapidi, la trincea divenne uno strumento indispensabile. Lo sviluppo tecnologico della terza rivoluzione industriale, giunto a compimento negli anni della Belle Époque, aveva messo sul mercato nuove macchine da guerra, più letali e distruttive di quelle conosciute fino a quel momento.

THE BRITISH ARMY ON THE WESTERN FRONT, 1914-1918 (Q 4649) Men of the Lancashire Fusiliers sit in a muddy puddle on the floor of a front line trench opposite Messines to clean a Lewis gun. Behind them, as the trench bends round to the right, a group of men can be seen standing in the trench, one of them with his bayonet fixed. To the left of the photographs, can be seen the gas alarm horn and wind vane. Several rows of sandbags form the top left-hand edge… Copyright: © IWM. Original Source: http://www.iwm.org.uk/collections/item/object/205195977

Proprio il combinarsi di queste armi, che erano in grado di trasformare ogni assalto in una carneficina, col persistere di una dottrina militare ancora ottocentesca, basata cioè sulla conquista graduale di posizioni, fu una delle ragioni che trasformò l’iniziale guerra di movimento in una guerra di logoramento. Ogni assalto si riduceva irrimediabilmente in una catastrofe, con una perdita di vite umane mai vista prima. Gli eserciti poi, dotati di tecnologie militari molto simili, non riuscivano a prevale e le trincee, difese troppo bene, diventavano impossibili da conquistare. Per circa due anni i fronti di guerra non videro cambiamenti, se non quelli dei soldati, che di volta in volta venivano mandati a rimpolpare i reparti distrutti nel corso negli assalti.

Com’era fatta una trincea.

Originariamente le trincee erano fossati, gallerie e talvolta semplici buche scavate nel terreno con mezzi provvisori per una difesa provvisoria. È probabile che le aperture provocate dalle granate abbiano rappresentato il primo nucleo difensivo, a partire dal quale, man mano che il conflitto procedeva, si aggiunsero due, tre, quattro o più linee di difesa parallele tra loro. 

La prima linea era quella più esposta. Qui si trovavano le macchine da guerra, e il grosso delle truppe di difesa era schierato entro le prime quattro linee. Intrecci di filo spinato, utili ad intralciare o a rallentare le incursioni nemiche, separavano il «parapetto» della prima trincea dalla così detta “terra di nessuno”: lo spazio di mezzo situato tra i due eserciti. L’artiglieria si trovava nella parte posteriore delle trincee principali, mentre il cibo, le munizioni, le cucine, ma anche le stazioni di soccorso e le latrine, erano collocati lungo le linee secondarie e vi si accedeva tramite strade disposte perpendicolarmente.

Gefallener Franzose auf der Höhe von Marenil.

Tutte le trincee erano scavate a zigzag: i tratti rettilinei non misuravano mai più di dieci metri, così da limitare i danni dell’artiglieria nemica ed assorbire le onde d’urto delle esplosioni. La struttura a zigzag infatti non soltanto permetteva una difesa migliore, ma evitava che la detonazione di una sola bomba causasse la morte di tutti i soldati schierati sulla stessa linea.

Le strutture cambiavano a seconda del luogo geografico in cui si trovavano: sul fronte italo-austriaco, ad esempio, il terreno roccioso rendeva impossibile scavare fossati profondi, per cui si attrezzavano fortificazioni di pietra, mucchi di sassi e muretti a secco. 

Una difesa ulteriore era data dai terrapieni, soprattutto lungo il fronte occidentale, o dai sacchi di sabbia che i soldati ammucchiavano sul lato della trincea rivolto verso il nemico, il così detto “parapetto”. Tavole e macerie venivano sparse sul fondo, potremmo dire sul pavimento, della trincea, che tendeva facilmente ad allagarsi: scavate nel terreno del resto le trincee erano luoghi fangosi, che s’impantanavano facilmente non soltanto a causa della pioggia, ma perché spesso per errore venivano scavate al di sotto della falda freatica, tanto che frenare le incursioni dell’acqua era quasi più difficile che arrestare quelle dei nemici.

Nei momenti peggiori le strade diventavano veri e propri fiumi di fango, illuminati appena durante la notte dalle luci elettriche, e per ore i soldati erano costretti a tenere i piedi nell’acqua o nella fanghiglia gelida. S’impiegava tutto il materiale possibile per sopraelevare i camminamenti: paglia, tegole, calcinacci… ma il più delle volte questi accorgimenti non bastavano: il «piede da trincea», una malattia del piede causata dal freddo, dall’igiene scarsa e dall’immersione prolungata era uno dei disturbi più diffusi tra i soldati, che nonostante i dolori e gli arti danneggiati non potevano abbandonare le loro postazioni. Le infezioni venivano curate solo in casi estremi, spesso quando l’amputazione era ormai l’unica cura possibile. I rimedi usati, come asciugarsi i piedi e cambiarsi le calze più volte al giorno, non erano sufficienti, e cospargere i piedi di grasso di balena, così come consigliò il governo britannico alle truppe, servì solo a peggiorare il problema.  

La vita nelle trincee.

L’orrore causato dalle battaglie e dai colpi d’artiglieria era solo una parte del dramma che si consumava nelle trincee. Le condizioni di vita in questi luoghi erano davvero precarie: si viveva in alloggi sotterranei, costantemente al freddo, con l’umidità e con i topi. La situazione igienico-sanitaria era disastrosa: ci si ammalava facilmente a causa della sporcizia, dei batteri o dei parassiti. Infezioni come dissenteria, tifo, colera erano all’ordine del giorno e non era raro che si rivelassero mortali. I reparti sanitari, invasi ogni giorno da feriti o moribondi, impiegavano ancora metodi rudimentali: non esistevano antibiotici ed era estremamente frequente che le infezioni andassero in setticemia o in cancrena.

L’invenzione delle nuove armi aveva portato con sé nuovi tipi di ferite e traumi. Moltissimi erano i danni provocati dalle pallottole o dalle schegge delle bombe; i corpi dei soldati erano spesso lacerati dalle esplosioni, ustionati dai lanciafiamme e si cominciarono a vedere le prime intossicazioni da armi chimiche, perlopiù proiettili o bombe al gas, i cui effetti erano ancora in gran parte sconosciuti.

La tecnologia che avanzava, in campo bellico come in campo sanitario, permise importanti novità come l’introduzione dei disinfettanti e delle garze sterili. Furono attuate le prime trasfusioni di sangue, che la recente scoperta dei gruppi sanguigni rendeva più sicure, e si diffuse l’uso della tintura di iodio come antisettico. Tuttavia non bastò: la mortalità rimase elevata e si calcola che almeno un decimo dei soldati mandati al fronte perse la vita. La cifra è spaventosa, se teniamo conto con la mortalità della Seconda Guerra mondiale inferiore al 5%.

Durante gli assalti, almeno un soldato su quattro era direttamente coinvolto nel combattimento e c’era quasi una possibilità su due di venire colpiti. Soprattutto per i militari schierati sulla prima linea era davvero difficile superare l’assalto senza morire o restare feriti. I danni più gravi venivano fatti dall’artiglieria, ma l’esplosione delle bombe poteva provocare piogge di detriti e terra che spesso infettavano i tessuti esposti, aggravando ulteriormente la situazione. Erano appena la metà coloro che, colpiti da setticemia, riuscivano a sopravvivere e circa il 99% dei feriti al ventre era destinato a morire. Chi restava, spesso portava con sé i segni della guerra con volti sfigurati o arti amputati.

Non bisogna dimenticare poi che, oltre ai danni fisici, gran parte dei militari soffriva di sindrome da stress postraumatico: un disturbo che continuò a perseguitare i sopravvissuti anche dopo il ritorno a casa. 

Gli “scemi di guerra”.

Quando la Grande Guerra scoppiò, gli ospedali di mezza Europa si riempirono di giovani ricoverati per disturbi mentali: i reduci dal fronte, che spesso non parlavano, si muovevano come automi e presentavano comportamenti incomprensibili. La gente cominciò a chiamarli «scemi di guerra» e molti di loro finirono negli ospedali psichiatrici, i manicomi, dove si tentò di curarli con trattamenti estremi ed inumani. 

Fu chiaro sin da subito che la vita di trincea li avesse sconvolti e almeno al principio la loro condizione interessò gli psichiatri, che annotarono strane attitudini, come tremori irrefrenabili, ipersensibilità, pianti e tendenza a cibarsi di qualunque cosa, anche «cenere, immondizia e terra». Ma col procedere della guerra e l’aumentare di casi, l’interesse scemò e a prevalere fu il sospetto che molti di questi «alienati» fossero in realtà dei simulatori, dei bugiardi e dei disertori che «giocavano» a fare i matti per non fare la guerra.

Vennero così istituiti centri militari di “smascheramento”, che avevano lo scopo di ricercare i simulatori e rispedirli subito al fronte. Si arrivò a pensare che lo shock altro non fosse che il manifestarsi di una follia latente in individui già predisposti e i reduci furono accusati, motteggiati e anche puniti per una loro presunta “femminilizzazione” al limite con l’omosessualità. Tutto questo spostò il baricentro della colpa, dalla guerra ai soldati.

Era vero che i militari tentassero di disertare e che alcuni di loro arrivassero ad auto-lesionarsi pur di essere rimandati a casa. Ma le diserzioni terminavano spesso nel sangue, con fucilazioni “esemplari”, e pensare di tornare a casa anche mutilati, pur di tornare, la dice lunga sulle condizioni di vita al fronte: ad attese infinite si alternavano momenti di scontro incessante, con massacri e rumori inimmaginabili. Ogni battaglia era un susseguirsi di grida, scoppi, luci abbaglianti, esplosioni, a cui si sommavano le paure, il dolore, lo spettacolo terribile di persone – spesso compagni – che morivano. E tutto era amplificato dal fatto che la stragrande maggioranza delle truppe veniva da ambienti contadini: non aveva mai visto la “modernità” da vicino e non riusciva neanche ad immaginare quali ne fossero gli effetti. Non dimentichiamo infatti che nessuno di questi giovani mai guardato neanche una simulazione di guerra in un film o in un videogioco.

L’insensatezza della Grande Guerra.

Approfondendo un minimo il contesto, non si può che rimanere spaesati davanti all’assurdità di un conflitto che per anni si è trascinato avanti sempre uguale. L’idea incomprensibile che dietro le macchine fossero gli uomini i responsabili di ciò che avveniva dentro e fuori le trincee rese la guerra insopportabile e sconvolgente per coloro che la stavano vivendo. I militari erano soprattutto giovani e giovanissimi, perlopiù appena maggiorenni. Negli ultimi anni del conflitto, andarono a combattere ragazzi che avevano appena sedici anni

Fu un momento traumatico per tutta l’umanità. Riti che facevano parte da sempre della vita dell’uomo anche in tempo di guerra scomparvero: la sepoltura dei corpi fu spesso impossibile, perché recuperarli nella «terra di nessuno» era troppo rischioso. Spesso anche i feriti erano destinati a morire perché non c’era modo di avvicinarsi a loro. In certi casi, i caduti furono raccolti solo a distanza di mesi se non a guerra terminata.

 

Il Milite Ignoto.

A due anni dalla fine del conflitto, il colonnello Giulio Douhet propose di erigere un monumento celebrativo che valesse da simbolo per tutti i caduti dalla Grande Guerra. Fu così che tra undici bare, con i corpi senza nome di undici soldati provenienti dai cimiteri di guerra sparsi sul il fronte italiano, ne venne scelta una. La decisione fu affidata ad una madre, Maria Bergamas, che rappresentasse tutte le madri d’Italia a cui la guerra avesse sottratto un figlio, e il soldato, scelto in modo del tutto casuale, divenne il Milite Ignoto. Il suo corpo fu tumulato al Vittoriale, a Roma, dove si trova tuttora. Nessuno conosce né probabilmente conoscerà mai la sua identità.

Era la prima volta nella storia d’Italia che ad un soldato semplice si dedicava un mausoleo, privilegio fino ad allora riservato solo ai condottieri. Era il segnale di una guerra nuova, quanto mai sconvolgente sia per chi se n’era andato sia per chi restava. I militari, i ragazzi che avevano combattuto al fronte, vittime non solo del dramma, ma anche delle ingiurie gratuite di chi li reputava inadatti e colpevoli delle sconfitte, trovavano per la prima volta una riconoscenza. Che era comunque poca cosa, se confrontata con ciò che avevano vissuto in quegli anni.


Fonti:

G. Sabatucci, V. Vidotto, Il mondo contemporaneo. Dal 1848 ad oggi.

Medicina d’urgenza nella Prima Guerra mondiale, in A. R. Leone, G. Casalegno, Storia aperta 3. Il Novecento e il mondo attuale.

https://www.britannica.com/topic/trench-warfare

https://www.nationalgeographic.it/storia-e-civilta/2020/01/larcheologia-svela-i-misteri-della-guerra-di-trincea

https://it.wikipedia.org/wiki/Trincea

https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_di_trincea

https://it.wikipedia.org/wiki/Piede_da_trincea

https://www.focus.it/cultura/storia/chi-erano-gli-scemi-di-guerra

https://www.raicultura.it/storia/articoli/2020/05/Scemi-di-guerra-0aec8157-2893-4f6c-9a5c-873c9e4cf5ea.html

https://it.wikipedia.org/wiki/Milite_Ignoto_(Italia)

https://it.wikipedia.org/wiki/Milite_Ignoto

Ventinove anni e un nome insolito. Ho cominciato a scrivere storie poco più tardi di quando ho cominciato ad ascoltarle, prima da mia madre, poi da mia nonna, poi da chiunque ne avesse una da raccontare.

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