In cosa credevano i Romani? Lari, Mani e Penati: che cos’erano davvero.
Dopo molto tempo torniamo a parlare di storia romana, senza però allontanarci troppo dagli argomenti affrontati nell’ultimo periodo: in termini di credenze e folklore, se così possiamo dire, oggi ci immergiamo nel mondo della “spiritualità” latina, che ovviamente è molto più complessa di quanto questo articolo potrebbe lasciar intendere, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Complessa e anche molto affascinante, oltre che, per certi versi, poco conosciuta.
Banalmente infatti tutti a scuola abbiamo imparato che il pantheon dei romani era simile a quello greco, con la differenza che i romani credevano anche a lari e penati, su cui si dice sempre molto poco. C’è del vero e c’è del falso e, anche se questo è uno di quei temi che prima o poi avrei voluto portare sul canale, lo spunto a parlarne è venuto da Emanuele Viotti, scrittore, esperto di Tradizione Romana e autore del canale YouTube Ad maiora vertite. A lui devo non solo l’idea, ma anche la fonte principale di questo video, che è il suo libro La via romana agli dèi di recentissima pubblicazione, di cui parleremo meglio in fondo all’articolo.
Religione romana: due precisazioni.
Quando si parla di religione romana, un argomento che mi è già capitato di affrontare nel video Lo strano rapporto tra uomini e dèi, che se volete rivedere o vedere per la prima volta trovate nelle schede qui a lato, bisogna innanzitutto fare un paio di precisazioni.
Con «religione romana» si indica un complesso sistema di credenze, culti e miti millenari. La storia romana, che canonicamente inizia nel 753 a. C. e arriva al 476 d. C., comprende un periodo di più di mille anni, durante i quali le abitudini, le condizioni, le situazioni sono cambiate. Gli stessi romani dell’epoca Imperiale, oltre settecento anni dopo la fondazione di Roma, avevano dubbi sull’origine di credenze che facevano parte ancora del loro modo di pensare. Questi «dubbi» li hanno lasciati anche a noi nel momento in cui li hanno messi per iscritto.
Questa è una delle ragioni per cui certi fenomeni per noi sono difficili da ricostruire o da capire: le fonti, risalenti in gran parte al periodo imperiale, sono tra loro contraddittorie, poco esaurienti e talvolta danno per scontato riferimenti che, al tempo, erano evidentemente ovvi, ma che noi, per forza di cose, abbiamo perduto.
La religione romana poi non è, come si è creduto a lungo, la religione greca con altri nomi. Le credenze romane, di derivazione italica, hanno avuto un loro sviluppo autonomo e partivano da premesse diverse rispetto a quelle greche. È vero che i romani tendevano a «romanizzare» i culti stranieri delle popolazioni sottomesse, appropriandosene o armonizzandoli al loro modo di pensare – cosa che accadde con la conquista della Grecia, – ma questo non significa che abbandonassero i propri. Anzi, la religione romana si basa proprio sul mantenimento della tradizione, il così detto Mos maiorum, un complesso sistema di valori, credenze e rituali, che poteva essere sì arricchito ma non di certo cambiato nelle fondamenta.
Il culto degli antenati.
Senza entrare, almeno per il momento, troppo nel merito della questione, ciò che ci interessa capire è che la religione romana si esprimeva in due forme di culto: una pubblica e una privata.
I Sacra pubblica, i «riti» pubblici, comprendevano tutte le pratiche che magistrati e funzionari dello stato, a più livelli, facevano in favore del popolo e delle cose comuni e riguardavano soprattutto, ma non solo, i «grandi» dèi, quelli, potremmo dire, con i nomi riconoscibili: Giove Ottimo Massimo, Giano, Marte, Quirino, giusto per citarne alcuni. Ma c’era, affianco a questi, un articolato sistema di credenze e rituali privati, i Sacra privata appunto, che venivano compiuti quotidianamente tra le mura domestiche e dai singoli pater familias.
I Sacra privata non riguardavano la collettività, ma la famiglia. Non erano rivolti alle divinità maggiori, bensì ai numi familiari, più intimi e privati, domestici, che non avevano nomi propri, o perlomeno nomi conosciuti, ed erano legati alla casa, ai suoi abitanti, che in qualche maniera proteggevano. Questi erano, nell’insieme, lari, mani e penati. Spiriti guardiani, più che divinità vere e proprie, intese alla maniera in cui le intenderemmo noi oggi.
Ma come i romani immaginavano queste entità? Come li raffiguravano? Cosa li distingueva gli uni dagli altri? Per rispondere a queste domande, dobbiamo prima rispondere ad un altro interrogativo: cosa intendevano i romani per numen?
Sebbene il termine sia usato, spesso impropriamente, come sinonimo di divinità, il numen era più che altro un’entità distinta dagli uomini, priva di volto o forma e difficile da imbrigliare o da afferrare. Presenze immanenti, innumerevoli, che i romani credevano abitassero i luoghi terreni prima degli uomini e a cui bisognava in qualche modo chiedere il permesso prima di spingersi entro certi confini.
Più uno spirito, dunque, che un vero e proprio dio.
Lari, mani e penati erano questo: entità spirituali che abitavano la casa, e alcune di loro più che immanenti erano presenze di ritorno. Chi moriva non svaniva mai completamente e in qualche modo restava a vivere nei luoghi di prima.
I lari romani.
A metà tra numen e antenati di ritorno, i Lari erano divinità familiari protettrici della casa, raffigurate come geni alati. Si credeva che abitassero entro le mura domestiche, benché li si potesse trasportare altrove. La loro origine è con ogni probabilità etrusca e il loro nome, Lares, anticamente Lases, deriverebbe da Lasa, dea etrusca, il cui nome e la cui immagine compaiono incisi su alcuni specchi bronzei risalenti al IV e al III secolo.
Lasa, su cui si conosce ben poco, è raffigurata come una donna alata, con le ali spiegate o chiuse, mai comunque in volo, e con alcuni oggetti legati al mondo femminile, a causa dei quali la si è considerata spesso un’entità protettrice della famiglia o una divinità dell’oltretomba, simile ad una parca. Non è chiaro quale legame abbia con i lari.
Certo è però che il culto di questi ultimi nasca comunque in ambito familiare, forse legato alla protezione dei campi e alla loro «benedizione» rituale. Prima di coltivare un campo o erigere una casa, infatti, i romani chiedevano il permesso al numen che abitava quel luogo, come per assicurarsi la sua benevolenza.
Varrone, secondo la testimonianza di Arnobio, avrebbe definito i lari come «anime delle persone defunte», e Apuleio li descrive come spiriti dei defunti morti serenamente, che come tali diventano positivi per la famiglia e la proteggono. In questo senso non è sbagliato parlare di «culto degli antenati», qualcosa che forse siamo abituati ad associare a civiltà spesso lontanissime, nel tempo ma soprattutto nello spazio, da noi.
Vi faccio un esempio, nel quale forse potreste ritrovarvi anche voi. Per anni la prima cosa che mi è venuta in mente pensando al «culto degli antenati» è stata Mulan. Mi figuravo questa sorta di spiriti evocati col fumo, che rappresentavano i cari defunti, e credevo si trattasse di una cosa propria delle culture orientali, sopravvissuta al massimo in qualche sperduta società tribale. Perché, come dicevo all’inizio, a scuola avevo studiato che i romani credevano agli dèi di importazione greca e nessuno spiegava molto altro sull’argomento.
Invece a Roma c’era anche questo: il riconoscimento di un antenato potente, un lare, il cui spirito era sopravvissuto al trapasso e dimorava nella casa, che era il luogo della continuazione della famiglia. E non soltanto in casa, in realtà, poiché sembra che i romani contemplassero varie tipologie di Lares: quelli familiaris, della famiglia, quelli compitales, dei crocicchi, quelli delle vie (lares viales), quelli marini (lares premarini) e quelli preposti alla difesa di intere città (lares praestites). Di tutti solo i primi erano considerati «privati», mentre i riti che riguardavano gli altri erano a tutti gli effetti dei Sacra pubblica.
I Lares familiaris risiedevano nel focolare domestico, centro simbolico della casa. I Lares compitales, i «lari di quartiere», avevano invece sede nel crocicchio, il punto di convergenza delle strade, che come il focolare domestico rappresentava il centro simbolico del quartiere.
Si potrebbe ipotizzare che alla base di queste credenze vi fosse, in tempi remoti, la sepoltura interna alle abitazioni. Sappiamo infatti sia dalle fonti scritte, sia da quelle archeologiche, che anticamente i familiari defunti venivano sepolti dentro le case o nei pressi dell’abitato. L’idea che gli spiriti dei morti vivano nei crocicchi del resto è giunta fino a noi e potrebbe essere legata alla presenza di antiche tombe proprio a ridosso di questi luoghi.
Lari buoni o cattivi?
Dal momento che i Lari erano dei «morti di ritorno», non è facile capire se li si considerasse completamente benevoli oppure no. Essendo antenati, è facile pensare che avessero lo scopo di proteggere la famiglia, ma si trattava comunque di morti e, ne abbiamo parlato già altrove, i morti, anche quelli buoni, potevano diventare pericolosi, soprattutto se non si dava loro il giusto rispetto, e così accadeva in genere nell’idea romana per i numi.
A proposito di ciò è interessante la testimonianza di Festo, secondo cui in occasione dei Compitalia, la festa dedicata ai Lari, e in particolare ai Lares compitales, si appendevano nei crocicchi dei fantocci di lana che fungevano da «sacrificio sostituivo», ovvero rappresentavano gli abitanti del quartiere e servivano a «nutrire», come simulacri umani, le entità più pericolose. Narra anche Macrobio che al tempo di Tarquinio il Superbo, la dea madre dei Lari, Lara, dall’aspetto infero, ricevesse in sacrificio dei fanciulli, per assicurare il benessere delle famiglie.
Le offerte ai Lari però potevano essere anche di altro genere: nell’Eneide si dice che in caso di incubi o di apparizioni in sogno di antenati defunti, si offriva loro un maiale. Mentre un antico rito di passaggio (Nonio Marcello) prevedeva che le spose, nell’abbandonare la casa paterna per la nuova casa, portassero con loro tre monete: la prima era destinata allo sposo, come a titolo di acquisto; la seconda, portata curiosamente sul piede, era deposta nel focolare, dove risiedevano i lari familiari; e la terza si lasciava nel crocicchio, come se fosse una sorta di «pedaggio» destinato ai Lares compitales (G. De Sanctis, La religione a Roma).
Se vi interessa saperne di più sul matrimonio romano, ne avevo già parlato in Il matrimonio nell’Antica Roma: trovate l’articolo a questo link.
Mani, Lemuri e Dèi Parenti.
Per quanto i Lari fossero, a detta degli antichi, antenati morti serenamente, il termine che compare più spesso nelle fonti per indicare i defunti è manes. È curioso che manes esista solo al plurale (pluralia tantum), come se si trattasse di una turba unitaria, nella quale è impossibile isolare individui autonomi. Come se la morte li unisse tutti in un’unica grande massa informe, forse tutta la «confusa popolazione dell’altro mondo» (G. Dumezil, La religione romana arcaica).
Forse vi stupirà, ma almeno al principio, prima dell’influenza greca, i Romani non avevano una rappresentazione precisa dell’oltretomba (Dumezil), o almeno questa rappresentazione non è giunta fino a noi. In più, non è affatto chiaro che idea avessero i Romani del comportamento o dell’interazione dei morti con i vivi. L’accento era posto molto più sul ricordo delle azioni fatte in vita che sull’attività dei trapassati.
I manes dunque erano il ricordo, la memoria del defunto. Gli eruditi romani interpretavano questo termine in senso positivo, come «presenze buone», pacificate. Non è però escluso che li si considerasse «buoni» per riflesso quasi superstizioso, perché cioè ci si augurava che fossero buoni e non perché lo fossero davvero (De Sanctis).
Non tutti i Mani erano però uguali. Una categoria particolarmente pericolosa era quella dei lemures, i morti anzitempo, che si credeva avessero lasciato la vita in modo improvviso o violento e che fossero per questo scontenti.
I romani avevano celebrazioni per gli uni e per gli altri: i Lemuria, che si tenevano a maggio, erano dedicate ai lemures, mentre i Parentalia, a febbraio, commemoravano, al pari del nostro Ognissanti, tutti gli altri manes. I Parentalia duravano nove giorni, nove come i giorni di lutto che si rispettavano con la perdita di un caro, e in questa occasione i vivi, secondo l’ordine giusto e «pio» delle cose, si recavano a trovare i loro parenti defunti. Molto particolare era l’ultimo giorno dei Parentalia, il cosiddetto Feralia, durante il quale era tradizione portare offerte di cibo e fiori, per poi banchettare accanto alle tombe, come se vivi e morti potessero mangiare insieme, rinsaldando il legame parentale che la morte aveva interrotto.
Tradizioni di questo tipo non soltanto erano comuni a civiltà anche lontane tra loro, ma sembra siano rimaste in vita fino a tempi recentissimi.
Durante i Parentalia, i romani celebravano anche i Diis Parentes, con ogni probabilità una categoria «speciale» di Mani, forse antenati più importanti, che per qualche ragione raggiungevano un gradino più alto rispetto alla massa dei manes comuni e che, per questo, erano detti divi/diui. Divi erano ad esempio Giulio Cesare o Augusto, il cui culto era rispettato in tutto l’Impero.
Si trattava, anche in questo caso, di entità benevole, protettrici, che tuttavia potevano diventare terribili se non le si onorava o ci si dimenticava di loro. Da Ovidio sappiamo che quando accadde, gli avi manifestarono la loro ira con prodigi spaventosi, con morti improvvise e ululati orribili per le strade.
I Penati.
Ancora diversi, sebbene per certi versi simili, erano infine i Penati. Per quanto sappiamo poco di loro, è presumibile che il loro nome derivi da penus, che era la parte più interna della casa, una sorta di dispensa dove si custodivano riserve di cibo e provviste. I Penati però, al pari dei Lari, risiedevano accanto al focolare e per questa ragione si tende spesso a confonderli tra loro.
Non è nemmeno chiaro se i Penati, che come i manes compaiono sempre e solo al plurale, proteggessero la dispensa o ciò che vi era conservato dentro, ma in ogni caso l’idea della dispensa, luogo centrale, come il focolare, della casa, lascia intendere che per estensione fossero protettori della casa tutta e dei suoi abitanti.
Come i Lari, anche i Penati si distinguono in pubblici e privati. I Penati di Roma ad esempio erano arrivati in Lazio grazie ad Enea che, racconta Virgilio, li aveva portati con sé fuggendo da Troia. Le fonti affermano che questi Penati siano rimasti nell’antica città di Lavinio fino al 338 a. C. per poi essere collocati nel tempio romano di Vesta, dove poi, secondo Tacito, bruciarono insieme al tempio stesso nel terribile incendio che colpì Roma nel 64 d. C.
Il libro di Emanuele Viotti.
Come promesso, prima di lasciarvi, mi mostro meglio il libro di Emanuele Viotti: La via romana agli dèi. La storia, i miti, le fondamenta e i riti della Religione Romana oggi, edito da Armenia. Gran parte delle informazioni che trovate in questo video sono prese da qui, sebbene mi sia concentrata solo su uno dei molti argomenti che vi vengono affrontati. Il libro ha oltre 500 pagine e affronta numerosi aspetti, storici ma soprattutto pratici, della religione romana. Uno dei suoi pregi maggiori, che ho apprezzato in modo particolare, è l’ampio apparato di fonti: per ogni informazione che leggete, è indicata la fonte bibliografica o l’autore di riferimento, e in appendice c’è una lunga bibliografia utile per chi vuole approfondire ulteriormente l’argomento.
Emanuele è un esperto di Tradizione Romana e il libro nasce sia come testo storico, sia come testo pratico, per cui al suo interno trovate, ricostruiti e spiegati nel dettaglio, i riti, le formule e le invocazioni, tutte rielaborate basandosi sulle fonti che sono giunte fino a noi. Personalmente ho trovato la cosa piuttosto interessante, perché permette di entrare in modo diretto nel mondo romano, diventando parte delle consuetudini e non solo osservatore a distanza. Dentro ci sono anche un lungo apparato di miti romani, un calendario e un’appendice con più di 400 divinità, corredate, anche queste, di riferimenti bibliografici. In più la lettura è scorrevole e non eccessivamente complessa, quindi è molto piacevole da studiare.
Fonti:
E. Viotti, La via romana agli dèi.
G. Dumézil, La religione romana arcaica.
G. De Sanctis, La religione a Roma.
https://www.treccani.it/enciclopedia/lari_%28Enciclopedia-Italiana%29/
https://www.treccani.it/enciclopedia/lasa_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/