Che ne sarà di noi dopo la quarantena?
Uno degli argomenti di conversazione preferiti della nostra ipercinetica società è: “come si vivrà in quarantena?”. Pascal diceva che l’uomo è infelice perché non sa starsene da solo seduto nella sua stanza, e qualcuno ha scritto citando questa frase che non c’è niente di male a starsene seduti buoni e zitti per una quindicina di giorni.
Tralasciando le battute più o meno becere su mariti che si rilassano a casa lontano da lavoro, moglie e figli e che si godono la tv via cavo in calzini di spugna e canotta per quindici giorni (meglio il virus, suvvia), la quarantena ha avuto il merito, forse l’unico considerando il disastro che ciò ha comportato per l’economia del paese, di farci rendere conto di quanto la nostra vita sia diventata dipendente dagli spostamenti.
Vista in una prospettiva storica, questa apparente banalità assume dei contorni molto particolari. Un uomo del Medioevo che vedesse la quantità e la qualità dei nostri spostamenti penserebbe che un normalissimo impiegato, che al mattino prende treno, tram e metropolitana per recarsi al lavoro, poi sale in macchina per far la spesa, accompagna i figli a scuola e nelle attività pomeridiane (andata e ritorno), faccia parte di una popolazione quantomeno seminomade per abitudini e stili di vita.
Restare improvvisamente costretti chiusi in casa per quindici giorni ha prodotto quindi un profluvio di riflessioni allarmate sulla salute mentale dei residenti della Lombardia o del Veneto. Frasi compassionevoli accompagnano persino la messa in onda dei poveri inviati dei TG nazionali, che piantonano i confini delle città e dei borghi inaccessibili come fossero dei cupi messaggeri di follia.
Nella Peste di Camus il ritorno alla normalità passava attraverso il recupero della dimensione umanistica dell’esistenza. Oggi il ritorno alla normalità sembra impossibile senza un ritorno alla dimensione lavorativa e cinetica. È assolutamente impensabile per la nostra società stare FERMA.
Nel bene e nel male, è una considerazione antropologica nient’affatto banale, perché la vita di un contadino degli anni ’60 verrebbe percepita oggi dai media come una vita in quarantena. La mole di spostamenti della nostra vita, non come impiegati lombardi ma come specie, è incredibilmente vasta, ed è stata completamente assorbita nella nostra sensibilità individuale e comune, laddove ci pare impossibile e invivibile il contrario. Non è un giudizio di merito, ma un dato di fatto.