Il lato oscuro di Pinocchio: morte, violenza e sevizie in un romanzo per bambini
In questi giorni mi sono dedicata alla lettura di un classico che tutti conoscete, ma che forse non tutti avete letto: sto parlando di Pinocchio. Forse vi ricorderete del grillo, della fata e di Geppetto, ma è probabile che due aspetti piuttosto agghiaccianti di questa storia vi siano sfuggiti: mi riferisco alla morte e alla violenza, ben documentati in tutti il romanzo.
L’attrazione per la morte.
Premetto che questo titolo non è casuale; di attrazione per la morte in Collodi parla infatti Asor Rosa, uno dei più importanti critici letterari italiani, che a proposito di Pinocchio ha sottolineato proprio che, nonostante si tratti di un libro per bambini, il rimando alla morte e al mondo dell’aldilà sia decisamente frequente. Tanto per cominciare perché, la prima versione di Pinocchio si concludeva proprio con la morte del protagonista: impiccato dai due assassini ad un ramo della Quercia Grande.
La storia uscì infatti in una prima edizione a puntate sul Giornale per i bambini e nel suo ultimo episodio vedeva il burattino a penzolare dall’albero con una corda al collo. Tuttavia i lettori e l’editore si opposero e Collodi fu in qualche modo “costretto” a riprendere il romanzo proprio da quel punto.
Oggi, benché Pinocchio sopravviva all’impiccagione e per ragioni non molto chiare, rimangono ancora nella storia altre morti significative: quella del Grillo parlante che, a differenza di ciò che le varie versioni cinematografiche hanno voluto farci credere, viene brutalmente ucciso dallo stesso Pinocchio con una martellata, e quella di Lucignolo, che si spegne in un modo molto triste: per le fatiche della sua vita da ciuchino. Ma soprattutto morta sin dalla sua prima apparizione è la Fata.
Pinocchio la incontra per la prima volta alla finestra di una misteriosa casa. Si tratta di una bambina «dai capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto». Il burattino invoca il suo aiuto, ma lei risponde soltanto: «In questa casa non c’è nessuno. Siamo tutti morti qui» e poi aggiunge «sono morta anch’io».
Una frase agghiacciante, che non ci aspettiamo di certo in un libro per bambini. E come se non bastasse, tutto l’episodio della bambina è contrassegnato da una forte carica mortifera. Siamo nel mezzo della notte e il burattino è stato svegliato dall’oste del Gambero rosso per andare con il Gatto e la Volpe a seminare gli zecchini nel Campo dei miracoli. Da solo, si avventura in un buio e fitto bosco.
Giorgio Manganelli, autore di un interessante saggio critico sul romanzo, Pinocchio, un libro parallelo, ha visto in questa parte la manifestazione di uno scivolamento vero e proprio di Pinocchio nel mondo dei morti. Camminando nel «buio così buio che non ci si vedeva da qui a lì» il burattino s’imbatte infatti nello spirito del Grillo parlante, che compare come «un lumino da notte» nel tronco cavo di un albero e che lo ammonisce di non proseguire, concludendo poi: «che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli assassini».
Libro per bambini, dicevamo?
Secondo Manganelli l’ombra del Grillo sarebbe soltanto la prima e più «esterna» manifestazione di un mondo “altro”. Proseguendo, il protagonista incontra gli assassini, e nel tentativo di fuggire inizia a correre finché la strada gli viene sbarrata, quasi al baluginare del giorno, da un fosso largo e profondissimo: cosa sarebbe allora questo “fosso” se non il limite tra il mondo dei vivi e quello dei morti?
Pinocchio lo supera con un balzo ed è dall’altra parte. Immediatamente si vede biancheggiare una casa nel verde cimiteriale degli alberi: è la casa della bambina, che inquadrata così ricorda fin troppo una lapide. Quindi la bambina, che è già morta e che non esaudisce affatto le preghiere di Pinocchio, cos’è se non fantasma, una sorta di «bambola signora dei morti»? Alleata della notte, ma anche del biancore lunare, questo suo personaggio è di certo il più interessante e più spettrale di tutta la storia.
Quel che c’è di notevole è che fin qui Collodi non la chiama mai “Fata”. Credeva dunque, almeno a quel punto, che la bambina non fosse altro che un’ombra dal mondo dei morti? E se così fosse, perché inserire un personaggio del genere in una storia per bambini?
Questi del resto non sono neanche gli unici indizi di questa “attrazione mortale” di Collodi. Ve ne cito solo alcuni, che però non intendo approfondire:
- In un punto del libro compaiono tre conigli recanti una bara, e non una bara qualsiasi: quella che ospiterà Pinocchio se non si deciderà a prendere la sua medicina;
- In varie parti della storia il nostro burattino rischia di essere ucciso nei modi più brutali, che vanno dalla scuoiatura, all’annegamento alla frittura in padella;
- La maggior parte delle sue avventure importanti avvengono di notte: l’incontro con Mangiafoco, la vicenda delle faine, la partenza per il Paese dei balocchi, il ritorno della Fata, la comparsa del pescecane, e persino le trasformazioni del protagonista prima di asino e poi in bambino.
- La stessa storia comincia in una «nottataccia d’inverno», che nella prima versione era in realtà una «nottataccia d’inferno», poi forse resa meno infernale da un problema di trascrizione.
Insomma, ce n’è davvero di tutti i gusti. Per cui, come giustificare tutto questo?
Personalmente credo che ridurre Pinocchio ad una «bambinata» sia un modo per sminuirlo. È un romanzo molto complesso, che si apre a moltissime letture – pensate che ne esiste addirittura una esoterica.
Del resto credo anche che il mondo in cui vivesse Collodi avesse un rapporto molto più diretto e profondo con la morte di quanto lo abbia il nostro. La morte era a quel tempo molto più all’ordine del giorno ed esisteva una diversa concezione degli “spiriti dell’aldilà” – se l’argomento vi interessa, ne ho parlato nel mio video dedicato ad Halloween di cui vi lascio il link.
Ma bastano questi aspetti a giustificare un rimando così costante alla morte soprattutto in un libro per bambini? O forse Pinocchio in realtà non è esattamente… un libro per bambini?
La violenza, le sevizie e l’autolesionismo.
Se avete letto il romanzo, non vi sarà sfuggito quanto violento sia il mondo di Pinocchio, un mondo fatto di persone disoneste, di uomini e bambini che litigano violentemente, talvolta quasi al punto di uccidersi; di animali e persone che lottano per la sopravvivenza fino a sopraffare, distruggere, annientare l’altro. Non vi racconterò di come Geppetto e Mastro Ciliegia si prendano a botte già nel secondo capitolo, né del ragazzino tramortito in una lite per un colpo alla testa; né evidenzierò ancora una volta che Pinocchio uccida e rischi di essere ucciso in più occasioni; voglio invece approfondire con voi un punto che mi ha molto sorpresa: il fatto che la violenza e talvolta le sevizie siano usate nella storia soprattutto a scopo educativo.
Questa intuizione di Giorgio Manganelli e trova riscontro in uno dei primi episodi del libro: quello in cui i piedi di Pinocchio, stesi ad asciugare sul braciere, si riducono in cenere. Collodi dice chiaramente che Geppetto «per punirlo della monelleria fatta, lasciò [Pinocchio] a piangere e disperarsi per una mezza giornata» prima di decidersi a ricostruirgli i piedi.
Voglio dire, ha perso… i piedi, mica un leccalecca.
Una sevizia simile gli viene inflitta anche dalla Fata nel capitolo in cui Pinocchio vede crescersi il naso: prima di porvi rimedio, «come potete immaginarvelo, la Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezzora, e lo fece per dargli una severa lezione». Il fatto che l’autore specifichi «come potete immaginarvelo» sta quindi forse ad intendere che l’atteggiamento della Fata sia giusto oltre che normale?
Del resto la Fata non è proprio una santa. In più di un’occasione lascia Pinocchio ad aspettare per ore, e persino per una notte intera. Manda al proprio posto una lumaca che impiega ben nove ore per tornare da Pinocchio e consegnarli un vassoio di cibo finto, pur sapendo che il burattino sta morendo di fame. Non è quindi così materna come si potrebbe pensare, soprattutto perché tormenta Pinocchio mettendolo di fronte al fallimento ogni volta che il burattino è in procinto di fare qualcosa. È dunque una fata o una matrigna cattiva?
Non so se potremmo definire questi “metodi” raccapriccianti un segno dell’educazione del tempo, probabilmente sì. Ma sarebbero un segno del tempo anche le altre torture veramente terrificanti a cui Pinocchio ed altri personaggi della storia vengono sottoposti?
Vi citerò la storia del tamburo, perché mi sembra una delle più significative. In questo episodio troviamo un mercante a tutti gli effetti normalissimo che acquista il burattino già trasformato in ciuco per farne… un tamburo. La cosa sconvolgente, al di là del fatto che qualcuno intenda fare di voi un tamburo, è il modo in cui Pinocchio-ciuchino venga ucciso: legato ad un sasso e gettato in mare: una metodologia che ricorda da vicino una tortura praticata al tempo dell’Inquisizione nei confronti delle presunte streghe.
Gettato in mare, a questo punto della storia, Pinocchio viene circondato da un banco di pesci che iniziano letteralmente a mangiarlo e consumano tutta la sua carne di ciuchino fino a raggiungere il suo scheletro di legno. Un’immagine che, lasciatemelo dire, mi ha veramente scioccata. E lasciatemi anche dire che la possibilità di venire letteralmente digerito da un pescecane sia un delle più crudeli torture che Pinocchio possa subire. Se aggiungiamo a questa la possibilità che un Pescatore-verde frigga in pentola il burattino, sono ben tre le occasioni cui Pinocchio rischia di essere mangiato da qualcuno, e forse per un caso o per fatalità quel qualcuno ha sempre a che fare con il mondo marino: il pescatore, i pesci, il pescecane.
State quindi ancora pensando che Pinocchio sia soltanto una favola per bambini? Potremmo dire che questi aspetti fossero già molto presenti nelle fiabe popolari; Collodi avrebbe allora preso spunto da queste?
Prima di lasciarvi la parola, vorrei citare solo un ultimo esempio di violenza a “scopi educativi” che ho rintracciato nel romanzo: quello che riguarda Lucignolo. Questo personaggio, che non molti lo sanno ma in realtà si chiamava Romeo – tutti lo soprannominavano Lucignolo «per il suo personalino asciutto, secco e allampanato come il lucignolo nuovo di un lumino da notte» – non gode della stessa fortuna di Pinocchio. Dopo esser diventato ciuchino, viene infatti sfruttato fino alla morte nei lavori di campagna. Per lui non esiste redenzione, e tra i tanti bambini «modelli» è sicuramente il più seviziato a livello educativo da arrivare addirittura a morirne.
Pinocchio lo assiste nel momento molto triste del trapasso, ed è questo forse un monito? Collodi vuole forse darci un chiaro messaggio, e nel caso, precisamente, quale?
Fonti:
G. Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo:
A. Asor Rosa, Letteratura italiana, Le opere III, Dall’Ottocento al Novecento.
https://it.wikipedia.org/wiki/Le_avventure_di_Pinocchio._Storia_di_un_burattino